GALATI – Fragility
(Databloem, 2019)
Il viaggio, la dislocazione fisica in luoghi remoti e impervi rappresentano per Roberto Galati continua fonte di ispirazione, che lo conduce a riflessioni profonde dimensioni fisiche inattingibili e solo apparentemente aliene rispetto alle sue manipolazioni sonore. Come nel periodo creativo che ha presieduto a “Mother” (2014), l’artista padovano è tornato a confrontarsi in maniera solitaria con una natura la cui imponenza imprime soggezione nell’animo umano, del quale pure condivide la fragilità.
Non a caso “Fragility” si intitola la nuova opera di Galati, scaturita da un suo nuovo viaggio nelle zone dell’Asia centrale, a diretto contatto sensoriale e visivo con le catene montuose più elevate del pianeta. La fragilità intrinseca è appunto quella delle rocce scolpite da tempi geologici e dei ghiacci che le ricoprono, la cui proiezione a un infinito che travalica la dimensione umana è invece parimenti soggetta a fenomeni di decadimento.
Di questo raccontano gli ottanta densissimi minuti di “Fragility”, nel corso dei quali Galati ha efficacemente tradotto in suono sensazioni e riflessioni ricavate dalla sua esperienza in quei luoghi, dei quali i sette brani che formano il lavoro rispecchiano la granitica imponenza e la brulicante consistenza materica.
Proprio seguendo una sottile linea di continuità con “Mother”, “Fragility” mette nuovamente in luce gli aspetti più magmatici e rumorosi delle sculture sonore di Galati, mai come in questa occasione maestose e dettagliate nella rappresentazione di processi decostruttivi in essere ma percepibili soltanto nel lungo periodo. Eppure, non vi è nulla di apocalittico tra i solchi di brani che si svolgono come materia viva, in incessante movimento, ma piuttosto la contemplazione rapita e la consapevolezza di una fragilità che accomuna uomo, natura e suono.