villagers_awaylandVILLAGERS – {Awayland}
(Domino, 2013)

Nome da scrittore e faccia da ragazzino, Conor O’Brien aveva rivelato il suo cristallino talento di songwriter con la splendida miscela di sensibilità melodica e folk delicatamente visionario di “Becoming A Jackal”, tra i più apprezzati dischi del 2010, tanto da meritarsi una nomination per il Mercury Prize.

Nell’atteso seguito “{Awayland}”, invece, l’artista irlandese sovrappone al candore vellutato di quel sorprendente debutto un più articolato ventaglio espressivo, che esalta la struttura di vera e propria band di Villagers, dischiudendovi potenzialmente platee ancora più ampie rispetto a quelle dei soli appassionati del folk-pop d’autore. Fin dal titolo, “{Awayland}” appare infatti un viaggio in una terra inesplorata, che prova a ricreare nel febbrile susseguirsi di paesaggi quel senso di stupore che appare connaturato alla penna sensibile e alle interpretazioni lievi di O’Brien.

Il viaggio trae le mosse da una dimensione intima e personale, che costituisce una sorta di dichiarazione d’appartenenza: “My Lighthouse” è infatti una romantica ballata in penombra, quasi priva di accompagnamento, che pare riprendere il discorso dove si era interrotto, soltanto con accenni di un registro melodico più alto e arioso. I due brani seguenti palesano invece con chiarezza la significativa evoluzione intercorsa, completando una sorta di trittico iniziale che mette subito sul tappeto tutte le nuove carte di O’Brien, con “Earthly Pleasure” che si inarca in una energetica ballata rock e il disorientante singolo “The Waves”, progressivamente soffocato da una coltre sintetica, ormai inevitabile tributo alle tendenze revivaliste del periodo, alle quale nemmeno i cantautori più puri paiono poter rinunciare (Lone Wolf, le premesse del prossimo John Grant).

Sull’interazione e ricombinazione degli elementi cardine enucleati dalle prime tre tracce corrono anche i restanti otto episodi di “{Awayland}”, con prevalenza di corpose interpretazioni full-band e saltuari inserti di tastiere, ma anche con un occhio rivolto al pop di maggiore fruibilità, in particolare nella melodia immediata di “Nothing Arrived” e nella spirale elettrica in crescendo di “Grateful Song”, mentre il tono epico di “The Bell” riassume in sé l’essenza della trasformazione, con i suoi arpeggi folk inframezzati da un’improvvisa impennata distorsiva.

Nel rinnovato conteso – che culmina nel baccanale sintetico-orchestrale di “Rhythm Composer” – i momenti di pacatezza acustica restano dunque marginali, confinati quasi solo alla soffusa ballata pianistica “In A Newfound Land You Are Free” e alla strumentale title track, respiro di limpida aria di brughiera in un disco ben più incalzante di quanto si sarebbe potuto prevedere.

Imprevedibile, appunto, e anche molto ambiziosa, la mutazione può dirsi solo parzialmente compiuta e non certo solo per l’amplificato registro sonoro di Villagers. Ai cambiamenti ci si può facilmente adattare, mentre assai discutibili appaiono le soluzioni prescelte in questa occasione da O’Brien proprio quanto alla loro funzionalità (e compatibilità) con la freschezza delle sue melodie e la sua scrittura sensibile che, sotto una superficie talora quasi respingente, sopravvive anche nello strano ibrido di “{Awayland}”.

http://www.wearevillagers.com/

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