ALELA DIANE – About Farewell
(Rusted Blue, 2013)
Sarà pure da molti considerata come un luogo comune, eppure non cessa di trovare riscontri la constatazione della strettissima relazione tra moti dell’animo e contenuto musicale realizzato da artisti che fondano la propria espressione principalmente su scrittura e voce.
Ultimo esempio lampante riguarda Alela Diane, ormai consacrata tra le più ispirate interpreti recenti del folk al femminile, che per il suo quarto album è tornata a una dimensione solitaria, scarna ed evocativa, in evidente controtendenza rispetto all’articolato impianto dalle sfumature country e blues di “Alela Diane & Wild Divine” (2011). Se l’esuberanza full-band del lavoro precedente era frutto anche di un’elaborazione condivisa con il marito, il chitarrista Tom Bevitori, la fine della loro relazione sentimentale ha di tutta evidenza presieduto alla scrittura di “About Farewell”, disco che fin dal titolo mostra la folksinger originaria di Nevada City alle prese con le ferite della solitudine.
Alela non ne fa mistero fin dalla copertina, nella quale si guarda allo specchio come per guardarsi dentro, e da testi che in molti casi non nascondono il loro contenuto autobiografico: passaggi come “Seven years to you dear heart is all that I can give/ And I know that without me/ You’ll find just what you need” non lasciano spazio all’immaginazione né alle metafore, mettendo a nudo le ragioni dell’abbandono (“And then you headed East and said her name”) e il crudele vuoto risultante (“I didn’t know it was the last time/ You never know when it’s the last time”).
In parallelo, anche il contenuto musicale delle dieci brevi ballate di “About Farewell” segue il canovaccio di un’introspezione profonda eppure mai esulcerata né tanto meno autoindulgente, tanto che frammenti di dimesso esistenzialismo (“Living is the hardest part/ That’s what we’ve always said/ Once upon the other side/ Is best not to look back”) si scorgono più tra le righe dei testi che non in un understament strumentale nel quale il pianoforte torna protagonista accanto alla chitarra folk.
Sedimentata e trasformata, ma mai dimenticata, la tradizione appalachiana dello splendido “To Be Still” e messa da parte l’enfasi elettrica del disco precedente, nei nuovi brani Alela Diane assume la dimensione di interprete elegante, che dalla sofferenza personale ha trovato forza per affinare la propria personalità di autrice e interprete, particolarmente a proprio agio in un formato adesso più essenziale e ovattato. Nascono così istantanee di toccante nostalgia quali “Lost Land”, “Hazel Street”, “Rose & Thorn” e le due ballate pianistiche “Colorado Blues” e “Nothing I Can Do”, mentre anche ai pochi passaggi in cui si riaffaccia un supporto ritmico (“The Way We Fall”, “I Thought I Knew”) il piglio suadente e confidenziale di Alela Diane conferisce toni sfumati e riflessivi.
Così nasce e prende forma il disco più fortemente sentito della cantautrice di origine californiana, che per superare attraverso la narrazione le recenti tempeste sentimentali ha prescelto un registro schietto, spogliato dalle incerte sovrastrutture dell’album precedente ma anche dall’affascinante patina di polvere folk degli esordi. Semplicemente, per raccontare se stessa Alela Diane ha deciso di fare a meno di entrambe, esorcizzando l’addio in un nuovo inizio musicale e umano.
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