SLOWNESS – How To Keep From Falling Off A Mountain
(Blue Aurora Audio, 2014)
Poco più di un anno fa, i californiani Slowness di Julie Lynn e Geoffrey Scott avevano sollecitato i palati degli amanti delle dissolvenze chitarristiche di inizio Novanta, con la formula pop scorrevole e sognante di “For Those Who Wish To See The Glass Half Full”, disco gradevolissimo e dotato di una personalità tale da discostarlo dalle diffuse calligrafiche emulazioni di una temperie artistica di recente tornata d’attualità.
Il loro secondo lavoro, “How To Keep From Falling Off A Mountain”, conferma l’antitetico gusto della band per titoli lunghi e per la concisione contenutistica, visto che anche in questo caso si è in presenza di una raccolta agile e scorrevole nei suoi trentasei minuti di durata complessiva.
Quel che invece muta rispetto al recente predecessore è soprattutto la grana del suono prodotto dagli Slowness, adesso sensibilmente più densa e articolata in una serie di vortici concentrici in graduale ascesa verso l’infinito che non funzionale alla creazione di un pur corposo substrato per melodie lievi e vivaci. Con l’eccezione della sola “Division”, canzone da meno di quattro minuti che riporta in primo piano intrecci vocali eterei e supportati da rilanci dolcemente impetuosi, “How To Keep From Falling Off A Mountain” appare puntare in maniera significativa sull’elaborazione di una coltre sonora spessa, ipnotica e in prevalenza tenebrosa.
Depotenziata l’attitudine pop e sognante, l’immaginario degli Slowness si attesta su quello di una vibrante psichedelia alimentata da feedback e scandita da ritmiche ipnotiche, che da sola crea imponenti costruzioni armoniche, alle quali le ridotte parti vocali fungono da semplice complemento dell’avvolgente magma di torsioni incandescenti, solo a tratti diluite in un flusso di morbide spirali dal sapore vagamente cosmico. L’ambizioso passaggio di livello della band californiana – attestato anche dalla produzione a cura di Monte Vallier (Weekend, The Soft Moon) – è plasticamente suggellato dalla stessa struttura del lavoro, oltre metà della cui tracklist di sette brani è occupata dalla mutante sinfonia “Anon (A Requiem In Four Parts)”, caleidoscopico compendio di cavalcate elettriche che, più che guardare con nostalgia alle intersezioni shoegaze-pop degli anni Novanta, ne riecheggia le componenti più visionarie.
A margine del ponte ideale gettato tra Ride e Calla, gli Slowness mantengono se non altro la lieve evanescenza di composizioni pur adesso ben corpose, confermando secondo un registro parzialmente diverso di mantenersi a distanza di sicurezza dal semplice revivalismo.