TOM KOVACEVIC – Universe Thin As Skin
(Immune, 2014)
Era la metà degli anni Novanta quando un collettivo di musicisti provenienti dal Pacific North West elaborarono un’affascinante sintesi di una psichedelia animata da orchestrazioni cinematiche, ai margini dell’allora dominante calderone post-rock, e via via sempre più intrisa di suggestioni etniche. Da quell’esperienza trassero origine, tra gli altri, i Cerberus Shoal di Caleb Mulkerin e Chriss Sutherland, che risultavano attivi, seppure in forma ben diversa, fino a pochi anni fa (“And Farewell To Hightide”, 1996, e “Homb”, 1999, restano comunque le vette della band). Tra i numerosi progetti paralleli e tra gli artisti che a vario titolo hanno collaborato col nucleo centrale di quella band, figurava un certo Tom Kovacevic, che oggi perviene a un tardivo debutto solista, supportato proprio dalla condivisione artistica di Caleb Mulkerin e, in fondo, coerente con le ricerche musicali condotte insieme dai due da ormai quasi vent’anni.
L’anello di congiunzione delle otto tracce di “Universe Thin As Skin” con le esplorazioni sonore condotte ai tempi dei Cerberus Shoal è rappresentato dalla scoperta di linguaggi musicali arcani, radicati in tradizioni recondite. È per questa via che Kovacevic, chitarrista di formazione, è andato risalendo la storia dello strumento, fino ad arrivare a uno dei suoi antesignani mediorientali, l’oud. Sull’oud e sull’altro strumento persiano ney (una sorta di flauto) è incentrato tutto il lavoro, le cui fascinazioni etniche sono altresì completate dallo studio delle ritmiche dell’Africa occidentale (djembe e tchung). Eppure, nonostante lo spaccato espressivo “Universe Thin As Skin” sia frutto di uno sguardo rivolto a est e a sud, tutto appare fuorché un resoconto di stampo turistico di un ideale viaggio esotico, in quanto gli scarni elementi delle canzoni sono stati assorbiti con consapevolezza da Kovacevic che, seppur con inflessioni vagamente ieratiche e cantilenanti, vi ha innestato armonie tali da plasmarli in un organico esperanto di tradizioni.
Se infatti si eccettuano gli interludi di soli zufoli orientali “Dulab Bayati” e “Kürdi”, il lavoro non lascia trasparire riferimenti immediatamente riconoscibili, rielaborando invece le stesse peculiari timbriche degli strumenti prescelti con una sensibilità a metà tra il fingerpicker e il cantore folk psichedelico. Iterazioni ed esili destrutturazioni si susseguono così senza iati, delineando anche un paio di canzoni compiute (“Post-Apocalyptico, With Contact”, “Song For Peter” e la conclusiva title track), perfetto suggello di un’operazione artistica non semplicemente originale e curiosa ma condotta con un’equilibrata combinazione di sensibilità occidentale e rispettosa scoperta di tradizioni.