THE RIVER MONKS – Home Is The House
(Self Released, 2014)
Quando si tratta di linguaggi espressivi riconducibili alla grande matrice folk, i luoghi rivestono sempre una certa importanza: The River Monks da Des Moines, Iowa, portano impressa la loro origine fin dal nome, legato alla colonizzazione da parte francese della zona dove ore sorge la città sul fiume omonimo, nella quale i tre membri costitutivi del nucleo iniziale di quello che ora è un nutrito sestetto hanno cominciato a fare musica insieme, prima di spostarsi sulle opposte coste degli Stati Uniti.
L’origine ha una valenza anche nel senso della connotazione della proposta della band, che nel suo corposo secondo album – a tre anni di distanza dall’esordio “Jovials” – offre una declinazione indie-folk che rispecchia la propria provenienza dagli Stati centrali. Non si ritrovano i sentori oceanici del Pacific North West né le radici appalachiane lungo l’ora di durata di “Home Is The House”, bensì una composita miscela di suggestioni atmosferiche, ampie e impalpabili come l’immagine di copertina, e di corposa materia folk-rock, entrambe ricondotte al comune denominatore di un’impostazione ariosa nelle soluzioni strumentali e nella ricorrente coralità.
Eppure, ad eccezione di un paio di episodi di robusta consistenza folk-rock (“Only Son” e la conclusiva “Apnea”) delle pronunciate sospensioni ritmiche di “Loam And Rye” e della veloce spensieratezza di “I Am A Lake”, la parte preponderante del lavoro è improntata a una sottile nostalgia, veicolata ora da lievi rarefazioni (“Take Me Now”) e da un incedere rallentato (i sette minuti di “Skin”), ora da una coralità orchestrale costellata da interpretazioni lievi ed evocative e di volta in volta arricchita di coinvolgenti cammei strumentali (la tromba di “Mouth”, l’armonica di “Granny”), che fanno quasi pensare all’Iowa di The River Monks come a uno dei tasselli della mappa musicale degli Stati di Sufjan Stevens.
È proprio nella capacità di trasmettere suggestioni molteplici risiede la forza di “Home Is The House”, album che al di là di qualche peccato di prolissità, si dimostra valida testimonianza di una narrazione legata agli ampi spazi del cuore degli Stati Uniti dai quali ricava una sicura ispirazione, tradotta in un’equilibrata miscela di indie-folk corale-orchestrale.