vashti_bunyan_heartleapVASHTI BUNYAN – Heartleap
(Fat Cat, 2014)*

C’è da prestare serio credito all’affermazione di una musicista sparita dalle scene discografiche per trentacinque anni, che attribuisce al suo terzo album il carattere di vero e proprio testamento artistico, momento finale di una trilogia il cui primo capitolo risale al 1970.

“Heartleap” giunge ad “appena” nove anni dal clamoroso ritorno “Lookaftering”, tra i primissimi frutti della temperie di quel periodo volta alla riscoperta dell’archeologia psych-folk dei primi anni Settanta (basti pensare anche a Linda Perhacs, Sybille Baier e allo stesso Mark Fry). Quello di Vashti Bunyan non è stato dunque un ritorno estemporaneo, ma proprio per questo “Heartleap” rispecchia il dichiarato intento dell’artista inglese di chiudere idealmente il cerchio della sua attività cantautorale, in una sorta di catarsi personale del suo particolare rapporto con la musica, non solo interrotto per così lungo periodo dal punto di vista espressivo ma manifestatosi sotto forma di un assoluto rifiuto per qualsiasi suono armonico, incluso quello della sua stessa voce fatata.

Proprio per questo le dieci canzoni di “Heartleap” sono impregnate di un forte legame simbolico ed espressivo con la scrittura giovanile della Bunyan, quella risalente al periodo ancora anteriore rispetto al debutto-culto “Just Another Diamond Day” del 1970. Altrettanto personali, scarni e incantati sono i nuovi brani, scritti dalla Bunyan nel corso degli ultimi sette anni e registrati nel suo studio casalingo di Edimburgo con la sola collaborazione di Devendra Banhart e Andy Cabic (Vetiver). Il loro contributo permane estremamente misurato, accessorio alle filigrane armoniche ricamate dalla voce senza tempo della Bunyan su fragili accordi di chitarra acustica o sulle note del pianoforte, che lei non ha mai imparato a suonare con entrambe le mani, così come non ha mai saputo comporre o leggere la musica.

L’arte di Vashti Bunyan è sempre stata puro istinto, ora che è una signora alle soglie dei settant’anni come lo è stato quando era una ventenne freak. Sembra davvero che il tempo si sia fermato, all’ascolto delle armonizzazioni bucoliche dell’iniziale “Across The Water”, della limpidezza cristallina dei madrigali in miniatura “Shell” e “Gunpowder”, della penombra sussurrata di “Here” e delle toccanti note pianistiche di “Mother” e della conclusiva title track, sospesa sul brivido di un addio artistico senza (più) ritorno.

Al di là del valore simbolico, “Heartleap” dimostra come Vashti Bunyan e la sua arte vivano da sempre in una dimensione diversa rispetto a quella scandita dall’ordinario scorrere del tempo; le sue canzoni di oggi non rispondono ai canoni del nuovo o dell’antico, sono semplice “oltre”, in un livello dominato soltanto da istinto e percezione. La sua è, nuovamente, una magia preziosa, non solo per quanto raramente sia stata dispensata nel corso degli anni e per la sua annunciata assenza di repliche: ammesso che così dovesse essere, per la sua uscita di scena, al carattere schivo e alla sensibilità di Vashti Bunyan non si addirebbe una fragorosa standing ovation, ma un silenzio rispettoso e consapevole della non comparabile unicità delle sue testimonianze artistiche.

*disco della settimana dal 6 al 12 ottobre 2014


http://www.anotherday.co.uk/

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