saul_freeman_wait_speakSAUL FREEMAN – Wait: Speak
(Vent Sounds, 2014)

Se si volesse descrivere il solipsismo sperimentale, il percorso di Saul Freeman potrebbe esserne una sintetica rappresentazione: oltre vent’anni di attività di scrittura e arrangiamento per e insieme ad altri artisti (da Steve Jansen a Robin Guthrie), un paio di progetti condivisi (Thieves e Mandalay) e il vezzo, riportato in cima alla sua biografia di aver “detto no a Madonna” che all’inizio del millennio gli aveva proposto una collaborazione.

Oggi Saul Freeman veste nuovi panni, per interpretare semplicemente se stesso, in una nuova vita artistica, libera da condizionamenti e del tutto autonoma dal punto di vista creativo: sono i benefici della solitudine, che evidentemente si attagliano al meglio al suo carattere e al processo della sua ispirazione.
“Wait: Speak” è il primo frutto della sua nuova dimensione solitaria, risultante di una gestazione ultradecennale dal cui silenzio sono emerse quattordici tracce di soffuse combinazioni ambientali tra pianoforte, chitarra, tromba e violino.

Nell’ora di durata del lavoro si susseguono, ricombinandosi in continuazione, multiformi suggestioni che spaziano tra neoclassicismo (l’iniziale “It Ain’t Over”) e timbriche jazzy (“Memoir II”), da avvolgenti atmosfere acustiche (“Left To Rise”) a un’ambience percorsa da segmentazioni elettroniche talora pronunciate (“Moor Song”). C’è tutta la storia di Freeman nella sequenza di frammenti e composizioni più articolate che forma l’album, interamente improntata all’idea di attesa, di sospensione riassunta dal titolo.

La maggior parte delle tracce di “Wait: Speak” presenta infatti latenze misteriose e a tratti inquietanti, incarnate dalla spettrale consistenza di interstizi tra note che si lasciano attendere per ritardi infinitesimali, così come dalle astrazioni vaporose che ne avvolgono l’incedere obliquo. Retaggi trip-hop scorrono carsicamente per poi elevarsi con decisione in piéce percorse da cadenze notturne o decostruzioni spigolose, la cui posizione antitetica rispetto alle soffuse trame acustiche attesta la versatile ricchezza espressiva affinata nel corso degli anni da Freeman, che qui trova manifestazione libera e compiuta, amplificata dal mastering da parte di Taylor Deupree, emblematico di un lavoro che non si atteggia a mera compilazione di una composita libreria sonora ma, con ogni probabilità, all’apertura di un nuovo, ambizioso ciclo artistico.


http://saulfreeman.com/

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