memories: LABRADFORD

labradfordLABRADFORD – Labradford
(Kranky / Blast First, 1996)

Una scatola sonora piena zeppa di ingranaggi, spie elettroniche e segnali acustici: è quella che torna a emettere le sue frequenze minimali per la terza volta nel 1996, azionata da un terzetto originario di Richmond, Virginia, che aveva trovato la propria casa artistica nella fervida Chicago di quegli anni, grazie ai tipi dell’allora giovane etichetta Kranky, il cui marchio cominciava già a essere sinonimo di ricerca di nuove forme musicali.

Visto attraverso il filtro del tempo, quello composto da Carter Brown, Mark Nelson e Robert Donne era un piccolo “dream team” di artisti che – con l’eccezione del primo – avrebbero assunto un ruolo di primissimo piano nella definizione di linguaggi sonori che spaziano dalla psichedelia all’elettronica ambientale. Dato il periodo di azione e la parabola parallela a quella delle esperienze del “post-rock”, i Labradford finirono naturalmente accostati a quel calderone, con il quale potevano avere in comune poco più che il formato espressivo alieno rispetto a quelli classici; allo stesso modo, la narrazione della loro musica, e in particolare del loro terzo, omonimo album, è stata in prevalenza popolata di riferimenti a forme d’arte ed esperienze musicali che poco o nulla avevano a che fare con la sua essenza.

Qui non si parla, dunque, di David Lynch né di Badalamenti, ma del pulsante contenuto sostanziale di sette tracce racchiuse in un artwork quasi completamente bianco, rifinito da pochi tratti a carboncino, essenziali quali le pur numerose particelle che le compongono. Si tratta, appunto, del suono di quegli ingranaggi, di ticchettii e monotoni bip che ricamano le già dense stratificazioni di chitarre e synth, non semplicemente volte a creare astratti veli caliginosi per soundscape spettrali, bensì funzionali a dettare le cadenze stranianti di scheletri di canzone, non esattamente cantati quanto piuttosto declamati o persino biascicati “sotto” la materia strumentale. Certo, le melodie adagiate sulle pulsazioni avvolgenti di “Midrange”, sui battiti notturni di “Pico” e sulla scarnificata andatura trip-hop di “Lake Speed” rappresentano quanto di più latamente “pop” i tre Labradford abbiano potuto offrire tutti insieme ovvero singolarmente. Eppure, non è solo nel carattere spettrale, allucinato delle “canzoni” che risiede l’unicità della magia di un lavoro che, davvero, delineava orizzonti completamente diversi al travalicamento di canoni all’epoca già in corso di scardinamento attraverso mezzi diversi.

Da un lato, la consistenza granulosa del suono dei Labradford si alimentava di una pluralità di dettagli infinitesimali, incentrati su ampiezze comprese tra vibrazioni puntiformi e persistenti elongazioni di riverberi, mentre dall’altro il massiccio inserimento di parti suonate acustiche (il violino di Chris Johnston) conferiva profondità cinematica e persino contenuto romantico a loop spettrali e modulazioni ipnotiche. Resta chiaramente distinguibile, nel corso del lavoro, una visionaria componente ambientale, che negli unici due strumentali “Phantom Channel Crossing” e “The Cipher” anticipa i giochi di saturazioni e dissonanze delle sperimentazioni droniche ma non manca di impregnare i fondali e le cornici entro le quali si svolge una materia sonora in continua trasformazione.

Alle placide decompressioni di “Midrange” si sostituiscono così visioni decisamente più claustrofobiche, che attraverso la sinistra elegia dei rallentamenti temporali di “Lake Speed” (“Feeling around in the dark/ for a feeling/ like strength/ and all that seems to fly by/ is all i have/ to measure time/ like a clock/ in pieces/ on the floor”) giunge ai torbidi notturni metropolitani di “Scenic Recovery”, scanditi da cadenze opprimenti e squarciati da bordate di un rumore appena represso. Alla medesima concezione di descrittivismo di marca ambientale, corrisponde, del resto il morbido finale di “Battered”, che disegna onde di avvolgente narcolessia, a partire dai bassi sussurri iniziali, gradualmente sublimati in cristallini loop in dissolvenza, fino ai quasi otto minuti che lo rendono il brano più lungo di un lavoro che anche nella durata contenuta trova uno dei suoi numerosi tratti salienti.

Ben oltre quei ricorrenti riferimenti a linguaggi musicali diversi e a forme d’arte tutt’al più individuabili per semplice affinità elettiva, a quasi vent’anni dalla sua pubblicazione “Labradford” resta un album visionario non solo per i tanti germi da esso gettati per tanta musica (latamente) ambientale degli anni seguenti ma soprattutto per la policromia dal particolare “effetto notte” creato dalla ricombinazione di elementi concreti, acustici ed elettronici. Sedazione psichedelica o avanguardia ambientale, post-modernità dalle frequenze basse o colonna sonora di un mondo immaginario dalle lunghe ombre, quella di “Labradford” è stata e continua a essere una sintesi straordinaria tra lucidità cerebrale e profondità suggestiva senza tempo.

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