Ci sono momenti, nella carriera di una band ormai assurta a una stabile dimensione di prima grandezza nel mondo indipendente, nei quali le tessere di un’intera esperienza si ricombinano con modalità per certi versi sorprendenti. Ciò è tanto più valido per i Notwist, band mai prodiga di uscite anche a causa degli impegni dei suoi componenti in una serie di progetti paralleli che, lungi dal drenare forze collettive, nel corso di oltre tre lustri di attività ha invece introdotto elementi tra i più disparati nell’espressione del quartetto tedesco.
Capita così che, appena un anno dopo il non esaltante “Close To The Glass”, i Notwtist si ripresentino con qualcosa di completamente diverso: più che un album, “The Messier Objects” è una music library guidata da un’estetica e corrispondente a contenuti almeno in parte esogeni al consolidato profilo della band e comunque dai dominanti linguaggi di questi anni. Non si tratta di qualcosa di radicalmente inedito per i Notwist – che già si erano cimentati con una colonna sonora (“Storm”, 2009) – eppure la sua valenza di raccolta organica di frammenti strumentali offre uno spaccato stimolante degli obiettivi creativi della band, presentandola in forma distante tanto dalla malinconia “indietronica” del fondamentale binomio costituito da “Shrink” (1998) e “Neon Golden” (2002), quanto dalle caleidoscopiche ibridazioni a suon di schegge acustiche, predominanze sintetiche, cadenze jazzy e fuzz pronunciati degli ultimi due album “The Devil You + Me” (2008) e “Close To Glass” (2014).
Mentre tutti quei lavori presentavano comunque il comune denominatore di una ricerca sonora associata a un formato sostanzialmente “pop”, a loro margine scorrevano e si sviluppavano le mille suggestioni dei fratelli Acher, manifestatesi in varie esperienze quali Lali Puna, 13 & God, Ms. John Soda, Tied & Tickled Trio e in numerose altre collaborazioni. Markus Acher le racconta, con riferimento a “The Messier Objects”, offrendo altresì una prospettiva, dal suo punto di osservazione privilegiato, sullo stato dell’arte della band e della scena musicale attuale.
Avete ormai una prospettiva abbastanza lunga sulla scena musicale tedesca: percepita qualche differenza tra il momento attuale e i tempi in cui avete cominciato a suonare musica?
Quando abbiamo cominciato, facevamo principalmente riferimento alla nostra scena locale, senza avere particolari contatti con altre band tedesche. In seguito, ci capitava spesso di incontrare band quali Mouse On Mars, To Rococo Rot o Tarwater, il che ha avuto un impatto importante su quello che facevamo. Il periodo in cui queste band hanno cominciato a unire l’elettronica con strumenti tradizionali suonati dal vivo è stato molto vitale e attivo dal punto di vista creativo. Però non vedo enormi differenze oggi…se non per il fatto che purtroppo adesso l’aspetto economico è diventato un fattore importante per chiunque fa musica, ma questo avviene ovunque nel mondo.
Nel corso degli anni, i Notwist hanno avuto – e hanno tuttora – numerosi progetti paralleli: senti di poter fare negli altri contesti qualcosa che non faresti con la band? E che relazione c’è tra i progetti paralleli e la produzione della band?
Tendo a vedere ogni band nella quale suono come un contesto a sé piuttosto che reciprocamente interconnessi, per cui ciascuno presenta il proprio specifico linguaggio, le proprie idee ed equilibri. Ritengo giusto e importante non comprimere tutte le idee in una sola band. A volte, a forza di lavorare in studio alla costruzione di canzoni al computer, può diventare davvero liberatorio suonare dal vivo in forma acustica senza nessuna traccia di elettronica intorno. E anche se proviamo a mettere a fuoco le differenze tra le varie band, c’è sempre qualcosa di nuovo da imparare, sul suono o dal punto di vista tecnico, che poi finiamo per portare con noi in altri progetti.
In generale, come funziona il processo produttivo preliminare a un vostro disco?Cominciamo a comporre separatamente, quindi ci incontriamo per lavorare sulle canzoni, iniziamo a suonare e a registrare, ma scriviamo anche tutti insieme in studio. Il più delle volte si tratta di un processo lungo, che dura fino a quando non abbiamo trovato la giusta forma per ogni canzone.
Oltre sei anni separano “Neon Golden” da “The Devil, You + Me”, altri sei sono trascorsi tra quest’ultimo e “Close To The Glass”: realizzare un album vi richiede sempre un lungo periodo di tempo?
Non si è trattato di qualcosa di voluto. Si potrebbe anche dire che siamo stati in tour per due anni dopo la pubblicazione del disco, poi per altri due anni abbiamo lavorato ad altro (altre band, musica per il cinema e il teatro, etc.) e quindi siamo stati in studio per altri due anni, con varie interruzioni. Però vogliamo essere sempre più veloci!
Quella di “The Messier Objects” è un’operazione organica e quasi interamente strumentale. Non si tratta di qualcosa di nuovo per voi, visto che avete già lavorato a progetti quali “Absolute Giganten” e “Storm”: quanto siete interessati ad associare musica e altre forme d’arte, in particolare il cinema?
Moltissimo. Parlo a titolo personale, ma almeno la metà dell’ispirazione sottostante alla mia musica proviene dall’arte, dal cinema e dai libri. Mi capita di paragonare molti miei testi a cortometraggi, molte canzoni a immagini e di metterli in correlazione con le opere di artisti visuali o scrittori. Per cui lavorare su musica per cinema e teatro ci ha dato l’opportunità di mettere in pratica idee diverse rispetto alle classiche strutture delle canzoni.
Avete spesso travalicato i confini di generi e definizioni, per quel che contano, ma c’è qualcosa che possa davvero rappresentare il vostro approccio alla musica?
In questo momento, direi che “The Messier Objects” rappresenti al meglio ciò che mi piace raggiungere attraverso la musica, qualcosa di vibrante e vario, che in qualsiasi momento può portare da qualunque parte. E anche il brano conclusivo di “Close To The Glass”, “They Follow Me”.
Nella vostra attività di band non avete mai perso il contatto con la scrittura di canzoni, melodie e con un formato (latamente) pop, che dimostra la possibile coesistenza del pop con la sperimentazione: come rapporti questa coesistenza alla musica da voi realizzata?
Piuttosto che una questione concettuale, credo sia dipeso dal nostro amore per entrambi i mondi musicali. Ed è proprio quel che siamo oggi, troppo strani per la “vera” popmusic, troppo orientati alla melodia per la “vera” sperimentazione. È solo che non riusciamo a fare qualcosa di diverso!
Al di là dei vari progetti nei quali sono coinvolti membri della band, ci sono altri artisti con i quali vi piacerebbe collaborare?
C’è un sacco di gente con cui mi piacerebbe lavorare…e stiamo già organizzando qualcosa in questo senso, ma non voglio parlarne ora perché non c’è ancora nulla di definito.
Quali dischi attuali hai apprezzato di più lo scorso anno?
Ho amato molto i nuovi dischi di Virginia Wing, Death + Vanilla, Dean Blunt, Jam Money e Fennesz, e poi molte ristampe e compilation, come quelle di Ennio Morricone (le colonne sonore e le composizioni per orchestra), la Anthology di The Clean, gli lp di Sublime Frequencies e Numero, e molti fantastici dischi di free-jazz, tra i quali quelli di Peter Brötzmann.
Cosa pensi della modalità di diffusione della musica attraverso la rete?
Oh, la amo moltissimo!
Cosa possiamo attenderci da voi nel prossimo futuro e cos’altro vi attendete voi dalla musica?
Posso solo sperare che potremo ancora vivere facendo musica il più a lungo possibile.
(pubblicato su Rockerilla n. 414, febbraio 2015 – English version)