L’universo sonoro racchiuso da Cécile Schott nei suoi dischi a nome Colleen è quanto di più singolare si sia affacciato sulla scena musicale del nuovo millennio. In coincidenza con la pubblicazione del quinto album, “Captain Of None“, l’artista francese racconta il suo percorso personale ed espressivo dall’originaria ossessione per i samples alla scoperta della voce e alla peculiare dimensione acustica conseguita attraverso l’applicazione a uno strumento desueto – la viola da gamba – e lo studio di una pluralità di culture musicali distanti nello spazio e nel tempo.
Dopo il lungo intervallo tra “Les Ondes Silencieuses” e “The Weighing Of The Heart”, torni con un nuovo disco a due anni di distanza dal precedente. C’è stata qualche differenza nei processi di elaborazione dei tuoi ultimi due dischi o nel tuo approccio alla composizione?
Per il nuovo disco ho cercato di lavorare in maniera quanto più libera possibile, da tutti i punti di vista. tra il 2013 e il 2014 ho vissuto un periodo di grazia creativa, nel quale ho davvero percepito che molte entusiasmanti possibilità mi si aprivano davanti. Dovevo dunque approfittare di queste sensazioni e trascorrere quanto più tempo possibile in studio.
Alcuni pezzi sono nati in maniera spontanea mentre mi preparavo per i miei spettacoli dal vivo nel 2013 (“Lighthouse” e poi “Captain Of None” e “I’m Kin”); ho subito avuto la sensazione che quelle canzoni fossero diverse da qualsiasi cosa io avessi fatti in passato e che rappresentassero la concreta realizzazione dei miei ideali espressivi. Sono molto “pop” per certi aspetti della scrittura (con melodie che fungono quasi da “hook”) pur essendo abbastanza sperimentali dal punto di vista della struttura e della produzione, nella quale ho impiegato molto delay, loop, feedback e modulazioni dei tempi dei suoni. Sono molto acustici (la viola da gamba soprano ha un suono fortemente legato alla terra) e al tempo stesso la produzione può dare l’impressione di avere a che fare con qualcosa di più “elettronico”.
Inoltre, penso che in generale sia voluta tornare a un modo più spontaneo di fare musica, recuperando in qualche modo quello spirito libero che avevo quando realizzai il mio primo album “Everyone Alive Wants Answers” nel 2002, ma con la significativa differenza che anziché impiegare samples adesso ogni parte del disco è suonata da me.
Da tutti i tuoi dischi traspare un interesse per suoni e strumenti particolari, a cominciare dalla tua viola da gamba: come hai cominciato a suonare una strumento così particolare?
Si è trattato di un lungo percorso: mi sono innamorata del suono della viola da gamba quando avevo quindici anni, vedendo in televisione il film “Tous les matins du monde”. Era la prima volta che la ascoltavo nel suo contesto originale, quello della musica barocca, e mi ha comunicato qualcosa di molto potente. Ma visto che non avevo un’educazione classica né i soldi per comprarlo, per me quello strumento è rimasto un sogno fino a quando non ho cominciato a imparare a suonare il violoncello nel 2004: a quel punto, dando lezioni di musica, ho messo da parte il denaro sufficiente a farmi costruire un viola da gamba basso, che ho finalmente ricevuto a inizio 2006. Nel 2008 ho deciso di ordinare anche una viola da gamba soprano (strumento della stessa famiglia ma con un registro più elevato, destinato a essere suonato negli ensemble di viola), poiché ne amavo in particolare il timbro simile all’arpa, proprio degli strumenti della musica non occidentale e in particolare di quella africana. Ho sempre desiderato uno strumento molto piccolo, portatile, e mi sono immediatamente resa conto che il soprano sarebbe stato abbastanza semplice da suonare a mo’ di fingerpicking, cosa che stavo già facendo col basso. Comunque, è stato nell’estate del 2012 che ho iniziato a suonarlo seriamente, scoprendo che avrei potuto ricavarne un suono molto originale cambiandone l’accordatura: è stato un autentico momento di svolta e quello dal quale ha preso forma “The Weighing Of The Heart” e non credo che senza questa viola soprano il nuovo album “Captain Of None” sarebbe esistito così com’è.
In “Captain Of None” c’è anche una grande attenzione per l’elemento percussivo, che appare legato alle culture dell’Africa occidentale e a quella giamaicana: come ti sei avvicinata a quel tipo di suoni?
Mi sono interessata alla musica africana da quando ho potuto prenderne in prestito delle registrazioni da archivi musicali, dopo essermi trasferita a Parigi nel 1999. All’epoca la mia attenzione si concentrava in particolare su registrazioni tradizionali di etichette quali la Ocora. Soltanto più di recente mi sono addentrata in produzioni africane della fine degli anni ’60 e dei primi ’70, trovando la capacità dei musicisti (in particolare dei chitarristi) e lo stile di produzione spesso sbalorditivi.
Quella nei confronti della musica giamaicana è invece una lunga storia d’amore in più parti! Ho ascoltato alcuni brani straordinari del periodo migliore di Lee Perry quando avevo cinque o sei anni perché i miei genitori avevano una cassetta di musica giamaicana, probabilmente acquistata lungo l’autostrada senza sapere davvero di cosa si trattasse. Ho ricordi nitidi di lunghi viaggi in macchina o in camper ascoltando quella musica e credo che da bambina sentissi quanto meno la grande differenza di quella musica rispetto a tutta l’altra che si suonava in casa.
Dopo di che, ho dimenticato tutto della musica giamaicana fin ben oltre i miei vent’anni, quando a Parigi ho cominciato ad acquistarla o prenderla in prestito (era il periodo d’oro delle compilation di 100% Dynamite e delle ristampe della Blood and Fires). Ma a quell’epoca ero piuttosto interessata a scovare dischi che fossero adeguati per poter essere campionati per la musica che stavo cominciando a creare al computer, per cui finii per impiegare più tempo ad ascoltare musica che soddisfacesse la mia ossessione dell’epoca per il sampling, mentre non aveva alcun senso applicare quella tecnica alla musica giamaicana, che presenta strutture talmente scarne che farne dei samples avrebbe significato “rubarne” il contenuto piuttosto che trasformarne la matrice sonora in qualcosa di creativo.
La terza parte della storia comincia verso la fine del 2012, mentre registravo “The Weighing Of The Heart”, quando insieme al mio compagno (l’illustratore Iker Spozio) abbiamo cominciato ad approfondire molto la musica giamaicana. L’ultima traccia di quel disco che ho finito di registrare è stata “Breaking Up The Earth”, sulla quale a un certo punto mi ero bloccata; allora ho deciso di sperimentarla in uno stile giamaicano e sono stata molto soddisfatta del risultato, provando un senso di liberazione tale che in quel momento ho capito che la musica giamaicana avrebbe rappresentato la mia guida nella realizzazione dell’album successivo.
Ovviamente il disco non suona come la musica giamaicana come tale – sarebbe stato stupido cercare di imitarla perché non sarei mai riuscita a fare qualcosa di altrettanto valido quanto quello realizzato da tutti gli straordinari musicisti, compositori e produttori giamaicani – ma piuttosto è il frutto di una ricerca di ispirazione dalla creatività di quella musica e della sua incredibile miscela tra una dimensione molto fisica e accessibile e un confronto astratto e molto moderno sia col suono che con la forma della canzone.
Nei tuoi dischi gli strumenti tradizionali hanno spesso convissuto con l’elettronica, gettando un ponte tra culture musicali risalenti e tecnologia moderna. C’è stata un’evoluzione nel tuo modo di bilanciare questi diversi linguaggi musicali nel corso degli anni?
Intorno al 2007 ho avuto un senso di vero e proprio rifiuto delle componenti elettroniche nella mia musica. In qualche modo sentivo che sarei stata una musicista migliore, o più autentica, se per esempio fossi stata capace di suonare facendo a meno dei loop. In quel periodo stavo attraversando una sorta di ossessione per estetiche estremamente spoglie, come quella zen giapponese, perché avevo davvero bisogno di trovare quiete nella mia vita.
Quando sono tornata a comporre nel 2010 ed ero alla continua ricerca di un nuovo lessico musicale, la mia percezione è mutata e ho approcciato in maniera molto più rilassata la questione di cosa dovessi o non dovessi fare. Devo ringraziare Arthur Russell perché ha avuto un ruolo decisivo nell’indurmi a tornare a fare musica e a lanciarmi su nuovi sentieri espressivi, dopo che ho letto la sua eccellente biografia “Hold On To Your Dreams”, scritta da Tim Lawrence. Conoscevo già la sua musica, ma in quel momento mi ci sono potuta immergere completamente, ed è stato quello di cui avevo bisogno, sotto tutti i punti di vista: lui non si curava dei generi ed era l’esempio perfetto di qualcuno che usava uno strumento acustico classico per creare una musica che spesso comprendeva effetti ed elettronica, che impiegava la melodia applicando un approccio sperimentale e ancora che cantava in maniera tale che voce e testi fossero del tutto integrati con la musica, in modo tale che non ci fosse alcuna dicotomia tra i suoi pezzi strumentali e quelli cantati.
Con “With Captain Of None” credo di aver condotto quell’approccio di libertà mentale alla sua logica conclusione: l’album sembra sia acustico che elettronico, sia pop che sperimentale, ha brani cantati e strumentali e spesso all’interno dello stesso brano i diversi passaggi si alternano, e poi credo che sia l’unico album mai realizzato suonato con una viola da gamba e influenzato dalla musica giamaicana!
“Captain Of None” appare il frutto di un ampio processo compositivo, non solo incentrato su loop e iterazioni. È il risultato di una tua ricerca per qualcosa di diverso rispetto a quello che hai fatto in precedenza?
Molti elementi distinguono questo disco dal precedente. “The Weighing Of The Heart” era molto incentrato sull’arrangiamento e presentava numerosi strumenti, perché ho cercato di riassumervi tutte le mie influenze del momento e ovviamente perché per la prima volta utilizzavo la voce e i testi. La sfida di “Captain Of None” è stata invece quella di ricavare materiale eterogeneo a partire da una ristretta base strumentale (principalmente la viola da gamba soprano, la mia voce, un po’ di percussioni e, su un solo brano, la melodica). La diversità del risultato doveva dunque discendere dalle melodie, dal modo di suonare e dal songwriting, ma anche dall’uso degli effetti e dalle scelte produttive. Gran parte del processo realizzativo è avvenuta in presa diretta, inoltre per i delay ho utilizzato una pedaliera analogia prodotta da Moog chiamata Moogerfooger, che produce degli effetti incredibili, che devono essere registrati al momento perché ogni volta che lo si usa il pedale reagisce in maniera differente. In questo senso gli effetti sono davvero utilizzati come strumenti a pieno titolo.
Per la seconda volta, l’elemento vocale è presente in più della metà delle trace del disco. Quella di scrivere testi e cantarli è per te una scelta definitiva? È cambiato qualcosa rispetto al disco precedente adesso che per te scrivere e cantare non sono più attività inedite?
Adesso sento canto e testi pienamente integrati nell’atto stesso di fare musica. Dal punto di vista dei testi, il disco presenta una spiccata unitarietà, che riguarda principalmente i rapporti tra cuore e cervello, le tensioni interne che tutti attraversiamo e la necessità dell’auto-comprensione per poter vivere in pace con se stessi. Si tratta dei principali temi che desideravo esprimere quando ho cominciato a provare a scrivere testi nel 2010, ma allora non riuscivo a trovare il modo giusto per farlo, per cui i testi di “The Weighing Of The Heart” erano per lo più sul mondo naturale nella sua accezione più ampia, che per me riveste un’importanza fondamentale. Comunque sulla title track credo di essere riuscita a esprimere qualcosa sulla condizione umana ed ero già sicura di voler proseguire in quella direzione. Il mio obiettivo è quello di riuscire a scrivere testi su questi temi personali, evitando i cliché e la trappola del “confessionale”. Ho ancora molto da imparare in questo campo e mi domando dove la scrittura potrà condurmi in futuro!
Nei versi di “I’m Kin”, ripeti di sentirti…affine a molte culture distanti nello spazio e nel tempo (quella azteca, quella persiana, l’antica Grecia): c’è un messaggio universale nella tua musica? Ritieni che il linguaggio musicale possa essere in grado di superare le differenze che caratterizzano la contemporaneità?
Ho una spiccata curiosità per molte cose, dalle arti al mondo naturale (sono appassionata di birdwatching e proprio adesso sto leggendo un grosso libro sul comportamento degli animali), e mi sento non solo una cittadina del mondo ma anche un essere vivente in mezzo a molti altri miliardi di creature dotate di un’intelligenza incredibile. Non credo che la mia musica rechi con sé un simile messaggio, ma penso che la musica sia incredibilmente potente e so che per me non esiste una soddisfazione più grande di quando qualcuno mi dice che la mia musica può averlo in qualche modo aiutato nella sua vita.
Il titolo del nuovo disco sottende qualche riferimento particolare?
Si tratta soltanto di un riferimento al modo in cui mi sono sentita in un certo momento. La canzone che vi dà il titolo parla dello smarrimento di contatto con la realtà, che non ti fa più riconoscere o comprendere te stesso, di un’inane ricerca di quiete, da cui la sensazione di essere “capitani di niente e nessuno”.
La copertina del disco è di nuovo una splendida opera di Iker Spozio. Quant’è importante per te l’aspetto visuale della tua musica? Hai mai pensato di associarla con esibizioni artistiche, fotografie, film, etc.?
Sono molto fortunata ad avere Iker quale partner artistico e di vita: ha avuto un’influenza decisiva su di me nel corso degli anni, da ciò che ascolta a come entrambi approcciamo il nostro lavoro, dal punto di vista sia artistico che professionale. Condividere la mia vita con un artista visuale è molto arricchente: sono sempre stata attratta dalle arti visuali e ho seguito corsi di ceramica e scultura su pietra per due anni nel periodo in cui avevo smesso di fare musica, e una delle cose che ho imparato da queste attività è che la quantità di lavoro dedicato a qualcosa è di importanza cruciale per il risultato. Non c’è grande arte senza tantissima dedizione; così, vedere Iker lavorare duramente a qualcosa di solito mi motiva fortemente a fare lo stesso sulla mia musica. E poi amo molto cogliere le corrispondenze tra trame e ripetizioni nelle arti visuali e nella musica. Ovviamente per me ha un rilievo fondamentale poter presentare la mia musica sotto forma di un bell’oggetto fisico grazie agli incredibili artwork di Iker, elemento che credo rivesta un significato ancor più importante rispetto al passato in questi tempi di consunzione digitale della musica.
Quanto alla possibilità di associare la mia musica ad altre forme d’arte, dipende molto dalle offerte di utilizzo che ricevo. Al di là di ciò, resto convinta di riuscire a comporre al meglio quando lo faccio per i miei dischi: la vita è breve e, in fondo, a meno che tu non sia un genio come Mozart o Bach, non realizzerai mai centinaia di grandi opere ma al massimo qualche dozzina se sei abbastanza fortunato e lavori duramente, per questo motivo preferisco concentrare la mia attività creativa sui dischi.
Hai registrato il disco nel tuo studio a San Sebastian: che importanza rivestono i luoghi nei quali suoni e registri la tua musica?
Avere uno studio tutto per me è stato di importanza fondamentale nel mio modo di lavorare: quando lavoravo a casa mi capitava di distrarmi molto, soprattutto per controllare l’email, ma anche per piccole cose come andare in cucina per cucinare qualcosa, etc. Nel mio studio non ho connessione internet e l’unica cosa che vi posso fare è lavorare sulla mia musica. Ciò ha meravigliosamente aumentato la mia produttività e mi ha permesso di trovare quel senso di intimità di cui ho bisogno per creare musica. Adesso lo studio è quasi perfetto, perché a fine 2013 ne ho rinnovato completamente gli infissi, per cui “Captain Of None” è a tutti gli effetti il primo disco che ho realizzato con tanto tempo a disposizione e in condizioni di lavoro ottimali, ed è anche il primo disco che ho registrato tra la primavera e l’inizio dell’estate. Tutto questo ha reso l’esperienza di registrazione molto rilassante in confronto alle condizioni più stressanti e meno ideali nelle quali avevo registrato i dischi precedenti.
Sei un’artista autenticamente “indipendente”, visto che scrivi, suoni e produci la tua musica da sola. Immagino che questo ti consenta grande libertà e completo controllo del processo creativo, ma pensi potresti mai lavorare con un produttore?
Credo che la risposta sia un sonoro NO! “Captain Of None” ha rafforzato la mia passione per tutti gli aspetti della creazione musicale di un disco, dall’esecuzione alla registrazione, dal missaggio all’effettiva sperimentazione di tutti i possibili elementi della produzione. In questo momento non riesco davvero a mantenere separati il momento della composizione e quello della produzione: si tratta di un momento unitario e mi piace tantissimo viverlo nella sua integralità, anche se a volte è incredibilmente impegnativo.
C’è invece qualche musicista con cui ti piacerebbe collaborare?
Apprezzo il lavoro di molti artisti contemporanei ma davvero non sono sicura di essere tagliata per le collaborazioni. Con il passare degli anni, sto comprendendo che ci sono alcuni aspetti della nostra personalità che costituiscono la nostra essenza più propria e credo che la mia tendenza a lavorare da sola sia uno dei miei tratti caratteristici come musicista, quindi ho deciso di abbracciare questo mio profilo solitario anziché sentire di doverlo giustificare.
Da ascoltatrice, che musica apprezzi maggiormente?
In realtà non ho moltissimo tempo per ascoltare musica, visto che passo la maggior parte del tempo a crearne, e anche quando non lo faccio in maniera diretta lavoro sulla parte amministrativa della mia attività musicale, pianificando tour e promozione o anche solo gestendo contatti via mail. Purtroppo non sono capace di ascoltare musica contemporaneamente a queste alter attività. Cerco poi di impiegare la maggior parte del mio tempo libero in contatto con la natura, perché è molto importante per il mio benessere fisico e mentale. Per questo motivo, quando adesso mi capita di ascoltare musica cerco di concentrarmi sugli aspetti per me più stimolanti anche in qualità di musicista, perché cerco sempre di carpire qualche piccola idea dai dischi altrui.
Nella mia vita di ascoltatrice ho attraversato diversi periodi, dal noise-pop di quand’ero adolescente a dischi più sperimentali all’inizio dei miei vent’anni, poi dalla metà dei venti per circa dieci anni mi sono concentrata in particolare sul jazz, su musica proveniente da Paesi non occidentali, su hip hop, elettronica, musica da film, psichedelia, folk e blues, musica classica e barocca, pionieri del ventesimo secolo come Terry Riley e compositori anticonformisti come Moondog… e il centro dei miei interessi attuali riguarda ancora la musica giamaicana e Africana.
Con tutta l’enorme musica in circolazione, credi che valga ancora la pena creare musica e scrivere canzoni?
Fare musica ha innanzitutto un significato per me stessa: faccio musica perché ne ho bisogno, come respirare. L’altro significato riguarda la condivisione della musica con altri, e davvero non importa se si riescono a raggiungere 500 o 500.000 persone, quello che importa è l’intensità della connessione tra musica e ascoltatore. Sono felice e profondamente onorata che là fuori ci siano davvero persone che possano sentirsi più felici ascoltando quello che faccio.
(versione integrale dell’intervista pubblicata su Rockerilla n. 416, aprile 2015 – interview in English)
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