DIRTY THREE – Ocean Songs
(Bella Union, 1998)
Quando il rock non era ancora “post-“, ma la sua dimensione strumentale legata a composizioni di lunga durata erano diventate inusuali rispetto, ad esempio all’immediatezza energica del grunge, dagli antipodi si affacciava sulle scene uno strano terzetto che al tradizionale triangolo chitarra-basso-batteria associava il suono di un violino, destinato a caratterizzarne le articolate trame strumentale. Si trattava di un terzetto che fin dal nome ostentava ben poche aderenze al classicismo, dichiarando invece un’appartenenza esplicita allo “sporco” ambiente del rock, mentre il violino che in maniera tanto curiosa per l’epoca ne definiva l’identità, accanto alla chitarra e al basso di Mick Turner e alle straordinarie percussioni di Jim White, era quello di Warren Ellis, polistrumentista e compositore giramondo, autentico freak dalla lunga barba, che aveva girato l’Europa come musicista di strada prima di essere invitato a suonare, prima dal vivo poi stabilmente, con i Bad Seeds di Nick Cave.
E proprio in qualità di “band del violinista di Nick Cave” i Dirty Three hanno cominciato ad attrarre una certa attenzione a livello internazionale, dopo un primo album (“Sad & Dangerous”, 1994) oggetto di una distribuzione piuttosto limitata. È con il secondo album, omonimo pubblicato nel 1995 proprio mentre Ellis intraprende la collaborazione con Nick Cave, che i Dirty Three sbarcano nell’universo alternativo, suscitando le attenzioni di etichette quali Touch & Go e Rough Trade, che fanno risuonare le loro cavalcate strumentali tra i cultori del rock alternativo più in auge in quegli anni. Composizioni che si costruiscono lentamente, ma poi avvampano tra ritmiche matematicamente scandite, dotate di un romanticismo desertico esaltato appunto dal languido suono del violino, risuonano attraverso le radio alternative, ben prima che l’associazione tra torsioni elettriche e soluzioni da camera definiscano il post-rock più emozionalmente coinvolgente.
In quel calderone i Dirty Three finiranno inevitabilmente – ma non per questo a ragione – ricompresi, nonostante le evidenti ascendenze di rock classico, contaminato con rielaborazioni di linguaggi che vanno dal country-folk al blues e persino al jazz, rigorose nelle esecuzioni eppure capaci di suggestioni cinematiche profonde, facilmente associabili a contesti e paesaggi naturali, dei quali la musica della band australiana coglie non i soli aspetti descrittivi ma anche quelli più tumultuosi, sottostanti ai moti naturali così come a quelli dell’animo.
La combinazione più fulgida di tali aspetti i Dirty Three la rendono nel loro quarto album, “Ocean Songs”, pubblicato nel 1998 e appunto consistente in una raccolta tematica dedicata all’ambiente marino, inteso nelle sue numerose sfaccettature, da quelle animate da fascino mitologico a quelle più oscure e tempestose, dalle contemplazioni estatiche a una struggente malinconia.
In oltre un’ora di durata, “Ocean Songs” passa in rassegna queste e altre sensazioni legate all’immaginario di flutti inquieti e romantici, incarnato plasticamente (e talvolta in maniera quasi onomatopeica) da prolungati abbracci armonici, bruschi innalzamenti di vibranti maree rumorose e ritmiche scandite con una precisione metronomica, che attraverso cadenze sfumate o accenti marcati mima il ritmo costante delle onde.
Il violino agrodolce di Ellis e le secche percussioni di White caratterizzano da subito l’apertura del lavoro, “Sirena”, che proietta immediatamente in paesaggi di sconfinata quiete e romanticismo; quest’ultimo rappresenterà, in forma più o meno carsica, il filo conduttore di “Ocean Songs”, combinato via via con la moderata tensione di prolungati dialoghi strumentali che si innalzano come seguendo i moti lunari e, a tratti, con un ardore che rivela le nemmeno tanto latenti ascendenze post-punk del terzetto.
A fronte di più brevi scorci di un paesaggismo contemplativo (“Backwards Voyager”, “Last Horse On The Sand”), il lavoro si snoda con passo felpato tra loop armonici e austeri dialoghi tra ritmiche asciutte e dolenti distorsioni elettriche (“The Restless Waves”) e crescendo ora placidi (“Distant Shore”), ora impetuosi, che danno luogo alle due lunghe suite “Authentic Celestial Music” e “Deep Waters” (dieci e sedici minuti rispettivamente). La prima costituisce, anche nel titolo, uno dei passi più rappresentativi dell’album e forse dell’intera produzione dei Dirty Three, con il suo giro di ritmiche dagli accuratissimi tempi dispari, il fluido svolgimento di struggente chamber-rock, impreziosito dall’armonica David Grubbs, che incarna fedelmente il semplice mistero dei moti di una marea in innalzamento. La seconda è invece una moderna sinfonia in miniatura, che espande le puntuali immagini marine del lavoro a galleria di un’immersione in profondità dal fascino inusitato, come in una colonna sonora di evoluzioni senza peso, sostenute dai soli moti aggraziati delle correnti.
Al termine del viaggio, sulle soffuse note pianistiche che ricamano “Ends Of The Earth” come i riflessi del sole su un mare placido, si percepiscono ancora i sentori salmastri che lo hanno accompagnato fin dall’inizio, insieme alle oscillazioni di un beccheggio tra le onde che non disturba ma anzi accarezza e riscalda il cuore. Resta anche la consapevolezza di aver percorso orizzonti amplissimi e lontani, molto distanti dall’ordinarietà espressiva, così come la serenità sottilmente malinconica suggerita da una musica… autenticamente celestiale, la cui magia non finisce, ma riecheggia ancora oggi, inalterata, preziosa e profondamente coinvolgente.
pietra miliare