JULIA WHITE – In The Cities Of Dust
(Soft Recordings, 2016)
Le sfrigolanti correnti di elettricità statica che pervadono “A Forest”, secondo brano di “In The Cities Of Dust” potrebbero suggerire un’immagine distorta, o quanto meno parziale, dell’arte sonora di Julia White. Si scoprirà infatti soltanto sul finire dell’album, caratterizzato dalle saturazioni ambientali di “We Cry” e dai prominenti gorghi sintetici di “You’re Rose”, che tutto ciò rappresenta soltanto la cornice di un’espressione artistica al tempo stesso lucidissima e tanto sofferta da trovare nelle nove tracce che compongono “In The Cities Of Dust” una testimonianza probabilmente destinata a restare unica.
Durante il processo di elaborazione del disco, la White aveva addirittura deciso di abbandonare l’attività musicale e il solo intervento di David Teboul (Linear Bells, nonché responsabile dell’etichetta che pubblica il lavoro) l’ha indotta a recedere dalla sua intenzione, almeno per quanto è stato sufficiente a portare a termine questo lavoro. La parte centrale e preponderante di “In The Cities Of Dust” differisce in maniera significativa dai suoi estremi, incentrata com’è su cadenze pianistiche, che aleggiano in uno spazio sonoro definito dalle loro stesse risonanze e riempito da sospensioni pulviscolari e occasionali field recordings naturalistici. È questa patina a trasmettere le sensazioni polverose suggerite dal titolo del disco, tanto nei passaggi ricamati da ponderate stille pianistiche e loop minimali (la parentesi iniziale “Follow This Small Path”, “In The End”, “To The Birds”) quanto in quelli di fluida progressione armonica (“Red Beach Harbour”, “Start Now”).
Infine, il brano realizzato proprio in collaborazione con Teboul (“I Found You”) dischiude una rarefatta dimensione cameristica alle solitarie miniature della White, artefice di un lavoro enigmatico, frutto della ricomposizione a unità di contrasti che paiono rispecchiare quelli dell’animo dell’artista, ideale città delle polvere che anela a orizzonti di libertà oceanica, nella ricerca di una pace incuneata tra tasti del pianoforte e frequenze elettroniche, della quale si può solo sperare che “In The Cities Of Dust” non resti l’unica, mirabile manifestazione.