KITCHENS OF DISTINCTION – Strange Free World
(One Little Indian, 1990)
Nel pieno di quella transizione straordinariamente fervida per la musica alternativa inglese, tra wave e shoegaze, tra retaggi dark e colorate scie psichedeliche, gravitavano esperienze di un’ibridazione non ancora definibile in maniera univoca e – forse proprio per questo – ancora oggi tanto affascinanti quanto meno frequentemente ricordate tra i cardini dell’epoca.
Era anche un’epoca di transizione verso la scoperta di nuovi mondi sonori, così come tra modalità di fruizione della musica. Erano poco più che i primordi del cd, almeno per chi si avvicinava allora alla musica in maniera per la prima volta consapevole, tanto che – oltre un quarto di secolo più tardi – il primo acquisto di tale supporto rimane ancora legato, anche, a un album dalla copertina dalle sfumature blu-violacee e denso di sensazioni oceaniche, rigeneranti e travolgenti. Si trattava del secondo disco di una band “minore” del periodo, perfetto emblema di quella transizione espressiva: non più e non solo wave, non ancora annoverabile nell’estetica e nei suoni che avrebbero predominato i primi nineties, eppure dotata di uno spirito in qualche misura persino pop, al tempo stesso deciso e arioso, o semplicemente “libero”.
L’immagine vagheggiata di un mondo libero – basti pensare anche al contesto storico-politico di quegli anni – innerva fin dal titolo la seconda testimonianza sulla lunga distanza dei Kitchens Of Distinction, terzetto londinese formatosi a metà anni Ottanta, che aveva debuttato nel 1989 con “Love Is Hell”.
Il loro ricordo resta però indissolubilmente legato a “Strange Free World”, e non solo per il suo acquisto “pionieristico”: i dieci brani che lo compongono rappresentano una carrellata al tempo stesso sulla temperie espressiva del tempo della sua uscita e su un microcosmo di sensazioni di un viaggio interiorizzato, popolato da tempestose correnti salmastre. Benché ad aprire il disco sia un’immagine ferroviaria (“Softly something comes / The train into the station / She has often waited / And wondered if he’ll come”), il viaggio della band guidata da Patrick Fitzgerald ha come destinazione le onde (“And I wanted to shed my skin / Into the ocean’s suck”), alla ricerca di una quiete panica, distante dal grigio delle città post-industriali thatcheriane, in piena armonia con gli elementi (“Here we are staring at the sun / Under the sky, inside the sea”).
Le sue tappe sono incastonate in una sequenza di canzoni che sono innanzitutto tali, in quanto le ritmiche cadenzate e il variopinto catalogo di sfumature chitarristiche che ne definiscono la struttura trovano quale comune denominatore melodie estremamente fluide, testi che parlano di passione, fuga e ovviamente libertà, che la voce profonda di Fitzgerald riempie di un romanticismo dai tratti ancora tenebrosi. Non si tratta di vere e proprie popsong, ma di scorrevoli narrazioni di un rock in trasformazione, che reca con sé retaggi dark-wave, a partire dall’iniziale “Railwayed”, combina tonalità sbarazzine con piglio decadente (“Quick As Rainbows”, “Polaroid”) e sfiora persino innodiche tentazioni rock (“Drive That Fast”).
Il comune denominatore di “Strange Free World” è tuttavia rappresentato dall’ariosa circolarità che ne predomina i brani, tanto nella struttura quanto nei suoni delle chitarre, non più jangly né austere come negli anni immediatamente precedenti, non ancora effettate come in quelli successivi, ma semplicemente sospese e inafferrabili, come l’ossigeno che si respira e pieni polmoni nelle corse a perdifiato suscitate da tormenti sentimentali (“Within The Daze Of Passion”, “He Holds Her, He Needs Her”) o dalla ricerca negli elementi naturali di quella libertà suggerita dal titolo (“Aspray”, “Under The Sky, Inside The Sea”). Tutte sensazioni istintive, che rendono quella di “Strange Free World” un’esperienza profondamente umana, il cui ricordo è ancora quanto mai vivo e presente, di fronte allo stesso infinito mare interiore, sotto lo stesso cielo reale e immaginario.
“Well here we are standing at the sea
Paradise is not where he wants to be
He counts the stars wishing they were blurred
Willing the sky to paint them green“