SLOWDIVE – Slowdive*
(Dead Oceans, 2017)

Poco importa che non si corra il rischio di essere originali nel richiamare l’attenzione sul ritorno, a ventidue anni dall’ultimo disco, di una band con all’attivo tre album, pubblicati tra il 1991 e il 1995, universalmente considerata tra le principali espressioni dello shoegaze. Benché gli Slowdive siano stati assenti dalle scene come tali per quasi vent’anni, fino alla reunion dal vivo in occasione del Primavera Sound del 2014, fin dalle premesse il loro ritorno si differenzia in maniera significativa da quelli di formazioni coeve, che hanno ripreso il percorso interrotto senza che tra il glorioso passato e la recente ripresa vi sia stata alcuna attività significativa (discorso che vale tra gli altri per i My Bloody Valentine, per i Jesus & Mary Chain e per i Ride).

Il fatto che Neil Halstead, Rachel Goswell e Simon Scott negli ultimi due decenni non abbiano mai smesso di fare musica – insieme, da solisti e seguendo percorsi diversi tra loro e il più delle volte molto diversi dalle radici Slowdive – si rispecchia pienamente negli otto brani che costituiscono il “disco del ritorno” della band inglese, emblematicamente omonimo. Tale differenza rispetto a molti altri ritorni si manifesta in maniera evidente nel contenuto del lavoro che si discosta immediatamente dalla mera replica, priva di differenze sostanziali, di un suono e di una modalità espressiva cristallizzata da vent’anni. Il tempo trascorso non è certo trascorso invano e, come risulta innegabile sui lineamenti dei componenti della band, così lo si percepisce distintamente nei nuovi brani, che non per questo risultano incoerenti con la breve storia degli Slowdive nella prima metà degli anni ’90, né con quanto in seguito realizzato dai principali componenti della band.

Anzi, nei densissimi tre quarti d’ora del lavoro si ritrovano tanto i rigeneranti riverberi elettrici, tratto distintivo dello shoegaze, quanto la leggerezza melodica del periodo Mojave 3, entrambi sviluppati e riassemblati secondo una sensibilità matura, odierna, filtrata dalla classe cantautorale conseguita negli anni da Neil Halstead e, in generale, da un’impronta fresca, sognante, ariosa, che fa subito capire come “Slowdive” non sia un disco in ritardo di due decenni, utile quasi soltanto a tamponare la nostalgia dei fan dell’epoca, bensì un disco frutto di sensazioni attuali, costituito da materia viva e contemporanea.

Ogni brano è una piccola storia, emozionale e sonora, ogni brano possiede un proprio svolgimento, mai banale, mai calligrafico. Gli Slowdive del 2017 si mantengono quanto più lontani possibile dalla replica degli Slowdive del 1991: l’incedere sognante di “Slomo”, le melodie celestiali di Rachel Goswell su “Don’t Know Why” e ” Everyone Knows”, le chitarre roboanti di “Star Roving”, le tremule pennellate cantautorali di “Sugar For The Pill”, le rallentate evanescenze di “Go Get It” e i sorprendenti ricami pianistici del commovente finale “Falling Ashes” raccontano di una dimensione artistica attuale, di una realtà nuova ma coerente con il passato, che non cessa di regalare il piacere e la curiosità della scoperta.

Tra i tanti ritorni di band degli anni ’90, quello degli Slowdive è davvero qualcosa di speciale, proprio perché è molto più di un semplice ritorno per adolescenti troppo cresciuti, vent’anni, qualche ruga e qualche chilo più tardi. Perché i musicisti degli Slowdive non hanno mai smesso di accompagnare i loro estimatori dell’epoca, cambiando e crescendo insieme a loro, come sono tornati a fare anche qui ed oggi, con classe immensa e per passione autentica, non solo per nostalgia.

*disco della settimana dal 1° al 7 maggio 2017

http://www.slowdiveofficial.com/

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