A THOUSAND HOURS – Endless Grey
(Vesper, 2017)
Denominazione prescelta, estetica, temi e titoli rappresentano già un eloquente biglietto da visita per una band, alla definizione della cui personalità concorre senz’altro anche la provenienza da luoghi remoti: A Thousand Hours sono un quartetto dell’Alaska, luogo il cui fascino vaporoso si ritrova appieno negli undici brani di “Endless Grey”, debutto all’insegna di chitarre e tastiere riverberate e melodie di soffice lentezza, veicolate dagli eterei avvicendamenti vocali tra Red Collier e Demi Haynes.
Loro stessi lo definiscono “slowgaze” e in effetti la sintesi tra slow-core e shoegaze risulta piuttosto calzante alla rappresentazione del profilo espressivo di A Thousand Hours, che tuttavia non si esaurisce, come sempre, nell’applicazione di etichette a un contenuto invece al tempo stesso omogeneo ed estremamente articolato. Vi è infatti una linea di continuità tra la sognante malinconia dell’incipit “Endless Grey” (dalle parti degli Slowdive di “Souvlaki”) e le asciutte cadenze wave di “Flood”, tra le tastiere opalescenti di “Moments” (in odor di Cocteau Twins) e il decompresso intimismo di “The Desolate Hour” e “Rainy Day”, tra Red House Painters e Pale Saints.
Proprio la pluralità di riferimenti suscitati travalica di gran lunga la fallacia definitoria, rendendo invece evidente come alla base di “Endless Grey” vi sia piuttosto un comune denominatore di indole espressiva, tradotta con personalità in languori di evanescente malinconia, che avvolgono uggiose sensazioni atmosferiche senza tempo né età, anzi assistite da una scrittura agrodolce e piacevolmente trasognata.