ÚLFUR – Arborescence
(Figureight, 2017)
Dopo essere stato insignito nel 2013 del premio di miglior giovane compositore dell’anno, in coincidenza con la pubblicazione del suo “White Mountain“, Úlfur Hansson ha trascorso gli ultimi anni lavorando da un lato in contesti sinfonico-orchestrali, dall’altro amplificando lo spettro della sua ricerca sonora, applicata a synth, elettronica, filtraggi vocali e rumore. “Arborescence” ne è la sintesi, sotto forma di sette agili tracce dal contenuto estremamente eterogeneo.
Benché l’artista islandese sia nell’occasione supportato da Gyða Valtýsdóttir, che ne ha eseguito gli accurati arrangiamenti d’archi, e dagli ulteriori contributi strumentali di Skúli Sverrisson e Zeena Parkins, l’impianto del lavoro si discosta dai canoni neoclassici per aprirsi in ogni brano a una varietà di suggestioni, accomunate da un approccio al tempo stesso metodico e impetuoso. Come la graduale intermittenza di una marea, “Arborescence” attraversa passaggi di quiete acustica (“Serpentine”) e pulsanti impulsi sintetici (“Rhinoceros”), aggraziate soluzioni cameristico-ambientali (“Tomi? Titrar”) e maestose elevazioni (“Weightlessness”) di un suono altresì decostruito e segmentato nelle sue componenti spigolose (la parte finale della title track).
Ma Úlfur Hansson sorprende anche per la sua capacità di combinare il suo sconfinato universo sonoro con un paio di canzoni oblique (“Fovea” e “Vakandi”), costruite su paesaggi sonori sognanti, definiti indifferentemente dall’elettronica o da delicati ricami di chitarra acustica e archi, così dimostrando una non comune sensibilità nel far convivere in equilibrio contenuti armonici e sperimentazione.