JUNE OF 44 – Four Great Points
(Quarterstick, 1998)
This is the greatest place on earth
interstated north and south
i know you won’t go far away
three full rooms full night and day
we can’t stay here
it’s time to go
L’inquietudine di una modernità incerta, ormai priva di punti di riferimento universalmente condivisi, ha innervato gran parte della creatività del rock indipendente degli anni Novanta, trovando manifestazione parallela in un suono aspro, ruvido, ma al tempo stesso riflessivo, a tratti sorprendentemente contaminato con spunti di un intellettualismo che cercava addirittura sponda in una strumentazione classica. Non è certo mistero che l’epicentro di tali fenomeni sia stata una città tutto sommato anonima, nel Middle East di quella pretesa “America profonda” che, un paio di decenni più tardi, avrebbe generato mostri di egoismo e disagio sociale, quella Louisville che invece alla metà dei Novanta fu crocevia di una creatività straordinariamente fuori dagli schemi.
Lì, in diretta discendenza da band quali Slint e Rodan, aveva idealmente base anche un collettivo invece dislocato in varie altre città statunitensi, ma riconducibile a quella temperie artistica per componenti e stile: i June Of 44 di Doug Scharin, Fred Erskine, Jeff Mueller e Sean Meadows, che operarono per una breve stagione tra il 1994 e il 2000, mettendo a sistema contraddizioni non solo espressive in un quattro album nei quali sono condensate esperienze e tentativi di ibridazione radicati dalla comune matrice post-punk ma tali da abbracciare destrutturazioni rumorose, cadenze jazzy e robusto approccio math-core, ma anche una sorta di riflessivo romanticismo di fondo.
“Four Great Points” è il terzo dei quattro album della serie della band, che segue di un anno il suo ideale manifesto, il conciso Ep “The Anatomy Of Sharks”. L’arrangiamento d’archi che ne introduce l’incipit “Of Information & Belief” lascia presagire soltanto in parte la complessità del suo contenuto, cangiante in ciascuna delle sue otto tracce e, ovviamente, anche al loro stesso interno. Le interpretazioni alternamente compassate e nervose di Meadows e di Mueller sono soltanto un simulacro di pacatezza, scandito dall’incredibile perizia ritmica di Doug Scharin (senza ombra di dubbio batterista di eccellenza di quegli anni), la cui estrema cura di tempi e timbriche caratterizza in maniera decisiva l’esperienza dei June Of 44, insieme alla sua stessa propensione per segmentazioni jazzy e loop ipnotici. Lo dimostra la stessa traccia d’apertura, con il suo crescendo di tensione distopica, che trova diretto sviluppo negli spasmi di “The Dexterity Of Luck” e soprattutto nell’urlo disperato di “Cut Your Face”, punti di contatto niente affatto nascosti con gli Slint e con gli stessi Rodan.
Al nervoso post-rock “matematico” che domina la prima parte del lavoro segue invece la varietà di traiettorie oblique disegnata dalla circolarità ritmica di “Doomsday” e dall’ambience straniante e vagamente esotica di “Lifted Bells”, mentre “Does Your Heat Beat Slower” e lo spoken word di “Shadow Pugilist” disegnano scenari di romanticismo post-moderno e ponderati rallentamenti di mondo. Il tutto è governato con la consueta maestria da Scharin, autentico fulcro della band, e rifinito dalla dolente tromba di Erskine, che ricama la conclusiva “Air #17” come una dolente elegia nella quale sono condensate trepidazione e speranza, dissonanza e armonia. È, in fondo, tale sintesi tra antonimi a rappresentare al meglio il messaggio e l’intera esperienza dei June Of 44, rispondente in “Four Great Points” più che mai alla definizione di nuovi punti cardinali tra i quali oscillano variegate ibridazioni di linguaggi, prodotte dalla costante complessità dell’intersezione di ragione e istinto.