storie d’artista: GIARDINI DI MIRÒ


Maturità oltre le definizioni

Dalla provincia emiliana al mondo, dal post-rock a trasformazioni (forse) un tempo imprevedibili; “Good Luck” segna il ritorno dei Giardini di Mirò, suggellando la loro costante tensione a uno sviluppo stilistico che, negli anni, li ha condotti a maturare una dimensione artistica di primo piano nel panorama indipendente italiano e una diffusione internazionale paragonabile, nell’ultimo decennio, soltanto a quella più recente dei port-royal.

Eppure, tutto comincia in maniera analoga a tante altre band sotterranee dei tardi anni Novanta: cinque ragazzi reggiani (Jukka Reverberi, Lorenzo Lanzi, Mirko Venturelli, Luca Di Mira e Corrado Nuccini.) che si dilettano a suonare insieme, distribuendo di persona i propri demo nei negozi di dischi, nelle radio e presso le etichette. È così che molti si sono dapprima imbattuti nella loro musica, forse anche grazie allo slancio dell’onnicomprensiva etichetta post-rock, il progressivo affrancamento dalla quale sarà in seguito ben più significativo nei dischi che non nelle definizioni sulla carta. Perché i Giardini di Mirò possono anche aver cavalcato quell’onda, ma fin dall’inizio hanno dimostrato fiuto nel sentirla avvicinare, ma anche una naturale propensione a superarla piuttosto che a lasciarsi trascinare dalla corrente.
È il 1999 quando il demo dell’anno precedente diventa un mini-album, edito dalla tedesca fiction.friction di Johannes Schardt, mentre in contemporanea vede la luce un altro mini-album privo di titolo, ma poi identificato come “Iceberg Ep”. Scontata – e nemmeno interamente calzante – la patente di “Mogwai italiani” attribuita alla band di Cavriago nelle prime recensioni e nei primi passaggi radiofonici. Nello stesso anno gli scozzesi licenziavano il capolavoro “Come On, Die Young” e se, per molti versi, la vibrante patina elettrica e gli interludi più riflessivi potevano giustificare la definizione, in brani quali l’intensissima “Pearl Harbor” si intravedeva già una morbida linearità melodica di chitarre in crescendo controllati, accanto a frammentazioni ritmiche decelerate, niente affatto estranee alle esperienze di Codeine o For Carnation.

La prima prova sulla lunga distanza, “Rise And Fall Of Academic Drifting” (2001), offre da subito una conferma del non appiattimento della band su stilemi tipicamente post-rock, riuscendo con successo a coniugare gli universi in apparenza opposti di impatto sonico e melodie talvolta incanalate in vere e proprie canzoni. Accanto a cavalcate elettriche strumentali, che sfociano nell’impeto travolgente di “Trompsø Is OK”, l’album presenta infatti anche due malinconiche ballate, affidate alle voci di Paul Anderson dei Tram (“Little Victories”) e a Matteo Agostinelli dei colleghi d’etichetta Yuppie Flu (“Pet Life Saver”). L’introduzione della componente vocale non è tuttavia una novità a sé stante, poiché ancor più significativi nell’economia del lavoro risultano il suono delle chitarre, che si fa sovente sfumato e romantico, e il ruolo degli arrangiamenti di violino e violoncello, che depotenziano la tensione elettrica anziché costituirne la semplice premessa.

La crescente eco internazionale trova immediata conferma l’anno successivo in una raccolta di remix dell’album (“The Academic Rise Of Falling Drifters”), pubblicata dalla nuova etichetta di Schardt, 2nd rec, che vede tra i contributori artisti del calibro di Herrmann & Kleine, Styrofoam, Dntel, Isan.
Probabilmente anche sulla scia di quelle manipolazioni dei suoi brani, la band comincia a introdurre nella sua musica elementi elettronici, sotto forma di pulsazioni, samples o altri minuti detriti sonori. È questa la formula riassunta in “Punk…Not Diet!” (2003), lavoro nel quale di un certo post-rock permangono quasi esclusivamente le cadenze, mentre le atmosfere si fanno più morbide e rarefatte e le voci assurgono a elemento fondamentale di una manciata di canzoni sofferte e dolci, vibranti come le due cantate da Alessandro Raina (le iniziali “The Swimming Season” e “Given Ground”) e delicate come “Last Act In Baires”, ninnananna intonata da Kaye e Christy Brewster.
Le cavalcate strumentali restano confinate quasi esclusivamente negli otto minuti di “Connect The Machine To The Lips Tower *Be Proud Of Your Cake*”, mentre pianoforte, organi e fiati delineano nuovi percorsi, allontanando in maniera ormai definitiva la band dai canoni post-rock nel frattempo trasformatisi piuttosto in cliché per nostalgici del prog e metallari riciclati. Così, mentre da quella definizione di “genere” non riusciranno ad affrancarsi mai del tutto i commenti sui loro dischi, la musica in essi contenuta viaggia già oltre, proponendone una declinazione estremamente peculiare e contaminata.

Ed è proprio la recettività dei componenti della band a suggestioni eterogenee a costituire il presupposto per interazioni con altri artisti e progetti solisti, i cui risultati vengono poi rifusi in maniera dosata nel contesto collettivo. Quello successivo a “Punk…Not Diet!” è infatti il periodo delle collaborazioni, dei progetti collaterali, ma anche quello nel quale la band emiliana si eleva a catalizzatrice di quelle che potevano essere le premesse di un vero e proprio movimento del rock alternativo italico, strettamente dialogante con gli input più stimolanti provenienti dall’estero.
Così, Luca Di Mira spinge sull’acceleratore dell’elettronica, regalando ambientazioni romantiche nello splendido “Flowing Season“, unica uscita del suo progetto Pillow, mentre Corrado Nuccini si cimenta nell’hip hop, abbracciando quelle intersezioni tra Hood e suono Anticon che la band al completo introietterà nel coevo 12’’ diviso in due parti “North Atlantic Treaty Of Love“, al quale partecipano Alias (con un remix) e il rapper Tom De Geeter dei belgi Zucchini Drive, al cui album “Being Kurtwood“ i Giardini di Mirò avevano contribuito in sede di produzione. Accanto a queste derive hip hop e alla tagliente techno di Apparat, nello stesso Ep trova posto la cover di “Blood Red Bird“ di Bill Callahan, che in conclusione reca un cammeo da “Il cielo in una stanza“, sempre cantata da Raina; mondi lontanissimi riassunti in pochi minuti, assorbiti e restituiti da artisti aperti e versatili.

È il preludio al terzo “Dividing Opinions“ (2007), album privo di compromessi fin dal titolo e dalla copertina, nel quale i Giardini di Mirò si assumono le responsabilità di una “scomoda” transizione a una forma più immediata e pop, ma sempre attenta a cogliere al volo idee e indirizzi della scena internazionale, da sottoporre a un processo di rielaborazione e adattamento alla propria sensibilità. Questa volta la contaminazione trova sponda nel pop agrodolce degli ultimi Blonde Redhead (che nello stesso anno realizzavano “23“) e nella spettrale malinconia dei Piano Magic, che sulla scia dell’entusiasmo tributato in Italia al loro “Disaffected“ ne pubblicavano sulla stessa Homesleep il seguito “Part-Monster“. Proprio il mentore della band inglese, Glen Johnson, compare quale ospite di riguardo in “Self Help“, brano che potrebbe sembrare firmato appunto da Piano Magic, arricchito di un romantico arrangiamento d’archi.
Ma la band non ha certo bisogno di luce riflessa per brillare, visto che l’intero disco si regge da solo su solide basi di canzoni pop che rinunciano ormai totalmente alla formula in crescendo ma prediligono lasciare la “sporcizia” del substrato chitarristico e ritmico dialogare con beat elettronici pervasivi, ovvero diluirla in spire avvolgenti come nel singolo “Broken By“ o nelle carezze dreamy della deliziosa “Clairvoyance“, ancora con Christy Brewster alla voce.

Il resto è storia di questi giorni, di un nuovo capitolo che si è fatto attendere cinque anni, intervallati dalla sonorizzazione in tre movimenti di un cortometraggio d’inizio Novecento (“Il Fuoco“, 2009) e segnati dalla chiusura della Homesleep, etichetta alla quale la band di Cavriago è stata unita da un sodalizio artistico che travalicava il semplice rapporto discografico. Ma, in pieno stile Giardini di Mirò, il lungo periodo di assenza di un album propriamente detto non è di certo coinciso con un’inattività creativa, bensì con la ricerca di nuove suggestioni e con l’instaurazione di nuove reti di contatti, testimoniate dalle collaborazioni con Sara Lov, Stefano Pilia e Angela Baraldi.
In quasi quindici anni di attività, il mondo indipendente nostrano ha attraversato profonde trasformazioni e oggi il ruolo catalizzatore rivestito dai Giardini di Mirò nei primi anni Duemila può essersi in parte affievolito, mentre altri nomi e altri stili sembrano andare per la maggiore; ciononostante, loro restano un punto fermo, senza però mai fermarsi nella personalissima e continua evoluzione dell’originario post-rock filtrato da una sensibilità tutta italiana. Che siano stimati o meno, che suscitino simpatie o diffidenze provinciali, innegabile resta l’essenzialità del loro contributo a una stagione musicale, che in “Rise And Fall Of Academic Drifting“ trova un emblema in grado di resistere al tempo. Per questo l’auspicio che dà il titolo al nuovo disco merita di essere rivolto innanzitutto a loro.

(pubblicato su Rockerilla n. 379, marzo 2012)

http://www.giardinidimiro.com/

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