MARK KOZELEK & DESERTSHORE – Mark Kozelek & Desertshore
(Caldo Verde, 2013)
Annata decisamente ricca di collaborazioni, quella in corso, per Mark Kozelek che, pur in assenza di uscite effettive a sé solo riconducibili, non si è accontentato di dispensare un paio di registrazioni live e la raccolta di cover “Like Rats”. All’ambizioso lavoro realizzato a quattro mani insieme a Jimmy LaValle (“Perils From The Sea”) segue infatti adesso la consistente partecipazione del dolente songwriter nativo dell’Ohio al terzo lavoro di Desertshore, duo originariamente strumentale formato dal suo vecchio amico Phil Carney – già chitarrista dei suoi Red House Painters – e dal pianista di formazione classica Chris Connolly, al cui precedente “Drawing Of Threes” (2011) Kozelek aveva già partecipato in veste di ospite vocale.
Adesso la collaborazione di Kozelek viene elevata a parte integrante della denominazione e della proposta artistica di quello che pertanto presenta sotto forma di terzetto dieci nuove canzoni, almeno formalmente frutto di una scrittura condivisa. Eppure, sarà per la spiccata personalità di Kozelek, capace di lasciare un proprio segno riconoscibile su chiunque gli abbia lavorato accanto (si veda da ultimo il caso di Jerry Vessel), o per la sensibilità che trasuda nei racconti di memorie familiari, faticosi itinerari per suonare in giro per il mondo, amici scomparsi e suggestioni legate al mondo della boxe, ma in tutti i brani del disco aleggia qualcosa di più che la sua voce sommessa e qualche verso sparso.
A mutare, rispetto all’ultimo “Among The Leaves” e al disco con LaValle, è nuovamente il contesto, qui improntato a un registro che non rinuncia all’endemica introspezione malinconica di voce e chitarra acustica ma si amplia in maniera sensibile a rifiniture che vanno da segmentazioni ritmiche tra jazz ed emo-core (“Katowice Or Cologne”) a nostalgie di rock sudista che rimandano ai primordi di Sun Kil Moon (“Livingstone Bramble”), fino a un generale senso di raccoglimento cameristico, che corre sotto traccia a quasi tutti i brani.
Tra fluide ballate sotto il sole delle highway (“Seal Rock Hotel”) e soffici confessioni in penombra (“Mariette”, “Sometimes I Can’t Stop”), resta soltanto un po’ sacrificato il contributo di Connolly, il cui pianoforte assume la redini della sola conclusiva “Brother”, picco umbratile di un disco altrimenti vitale e, a tratti, sbarazzino per quanto possa esserlo un’opera che vede Kozelek tra i protagonisti. E in questo caso l’opera reca senza dubbio la sua firma riconoscibile e, al contempo, denota il senso di disimpegnata confidenza di tre artisti che si conoscono bene e si ritrovano per suonare insieme; se questo contribuisce forse a non far decollare il livello di intensità delle nuove canzoni così congegnate, è certamente un ottimo biglietto da visita per gli estimatori dell’inesauribile universo musicale che ruota intorno a Mark Kozelek.