WARM MORNING BROTHERS – Stolen Beauty
(Other Eyes, 2013)
Non è una novità che la sedimentazione della raffinata indole pop di Andrea e Simone Modicamore richieda una certa gradualità e tempi, pertanto, piuttosto rallentati. Come il loro secondo disco “Too Far From The Stars” (2010) coincideva con il loro ottavo anno di attività creativa, così il nuovo “Stolen Beauty” giunge al culmine di un triennio nel quale i due fratelli piacentini hanno continuato a lavorare di cesello sulla scrittura di artigianali melodie acustiche, elaborando nel contempo più articolate formule sonore attraverso le quali presentarle.
“Stolen Beauty” appare il frutto di una mutazione nella continuità, simboleggiata dal fatto che il brano d’apertura del lavoro presenta lo stesso titolo e dalla rinnovata ragione sociale della band, adesso denominata Warm Morning Brothers. Quest’ultimo dato non attiene soltanto a una constatazione positivista ma riveste un carattere sostanziale, se non altro perché oltre ai fratelli Modicamore al disco hanno partecipato in maniera fattiva quelli che nelle stesse note di copertina sono definiti “additional brothers”, ovvero numerosi musicisti che hanno aggiunto ai gentili intrecci vocali e alle armonie acustiche del duo variopinte sfumature ritmiche, fiati e archi.
Decisamente più curato rispetto al suo predecessore, “Stolen Beauty” riveste le aggraziate melodie dei fratelli piacentini di arrangiamenti ora romantici e sottilmente malinconici ora vivacizzati dall’originaria impronta pop della band. Le tredici tracce dell’album (alle quali si aggiunge quale bonus track una brillante cover di “Lord Kill The Pain” dei Red House Painters) segnano infatti un percorso che dall’originario pop-folk muove verso suggestioni seventies, elegantemente contornate dalla rinnovata ampiezza degli arrangiamenti. Mentre in particolare l’accoppiata di brani d’apertura non può non far correre il pensiero a Simon & Garfunkel e Kings Of Convenience, all’avanzare della tracklist si manifestano le tonalità più calde e briose del vivace incedere di brani quali “Face In The Mirror” e “Little Rose”, mentre riaffiorano a tratti cadenze beatlesiane (“Your Last Night’s Dream”), rispetto alle quali il dato relativo al mastering del lavoro presso gli studi di Abbey Road si atteggia tuttavia quale semplice ma suggestiva curiosità.
A conformare il profilo dell’album sono piuttosto i misurati arrangiamenti d’archi, dolci e nostalgici al tempo stesso, frutto dell’attualizzazione di un gusto formale piacevolmente retrò che si colloca in quella linea di continuità che unisce Bacharach e Van Dyke Parks a Jens Lekman. Il tono lieve e le morbide pennellate del duo generano così piccole gemme acustiche avvolte in arrangiamenti d’archi, formula che si dimostra la più congeniale alle melodie dei fratelli piacentini, la cui proposta adesso più ancora che in passato si discosta nettamente dalla media indipendente italiana per elevarsi, grazie anche a un pregevole cantato in inglese, a credibile saggio di chamber-pop dal cuore acustico.
Una bellezza non solo da contemplare rapiti, ma da assaporare nel suo contenuto di vitale raffinatezza.
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