THEE SILVER MT. ZION MEMORIAL ORCHESTRA – Fuck Off Get Free We Pour Light On Everything
(Constellation, 2014)
Sempre più distante, nella formazione e nel linguaggio, dall’ensemble da camera parallelo ai Godspeed You! Black Emperor che alle sue origini di quasi tre lustri orsono, la Silver Mt. Zion Memorial Orchestra ha assunto sempre più il profilo di braccio armato musicale dello spirito incendiario e apocalittico di Efrim Menuck.
Adesso assestata in quintetto che alla classica triangolazione rock di chitarra, basso e batteria aggiunge semplicemente due violini, la band incrementa in maniera sensibile il suo tasso di abrasività nel suono e nelle tematiche. Fin dal titolo, “Fuck Off Get Free We Pour Light On Everything” palesa la propria natura di raccolta di una serie di invettive politiche nervose e accorate, fedelmente rese dagli assalti elettrici di Menuck e dalla sua voce sgraziata. Le residuali componenti cameristiche, spogliate di ogni romanticismo, non fanno altro che accentuare, in maniera altrettanto nervosa, i momenti di maggiore drammaticità, risultando tuttavia surclassate dal febbrile incedere hardcore-blues delle litanie urlate da Menuck lungo brani che nella metà dei casi oltrepassano l’asfissiante durata di oltre dieci minuti.
Le atmosfere di angosciosa claustrofobia si attagliano del resto alla perfezione ai messaggi di rivolta e disperazioni sottesi al lavoro (“All our cities gonna burn / All our bridges gonna snap / All our pennies gonna rot / Lightning roll across our tracks / All our children gonna die”), risultando temperate soltanto nel breve interludio d’archi “Little Ones Run” e nella conclusiva evocazione para-ambientale “Rains Thru The Roof At The Grande Ballroom (For Capital Steez)”.
Le invettive di Menuck risultano per il resto senz’altro rispondenti allo spirito punk che, pur carsicamente, ha sempre innervato le coordinate espressive del collettivo québécois. Tuttavia, la loro tagliente destrutturazione, in quest’occasione finisce paradossalmente per depotenziarne l’efficacia, facendole risultare tanto brusche quanto respingenti. Dimostrazione di ciò si può trarre proprio osservando, di contro, la pur vibrante e parimenti durevole “What We Loved Was Not Enough”, unico pezzo nel quale le predicazioni quasi urlate di Menuck trovano parziale bilanciamento in pennellate cameristiche più accentuale e riflessive e residui di coralità. Proprio tali elementi hanno insieme costituito l’essenza in continua trasformazione di una band ormai difficile da associare alle meraviglie regalate nel primo scorcio della sua attività, tra i due gioielli del debutto e di “Horses In The Sky“.