LEYLAND KIRBY – We Drink To Forget The Coming Storm
(Self Released, 2014)
La modesta attività discografica degli ultimi tempi da parte del prolificissimo Leyland Kirby avrà probabilmente stupito quanti, non senza difficoltà, cercano di tener testa all’incredibile mole delle sue produzioni. Il funambolico artista e compositore inglese dai mille alias (The Caretaker, The Stranger e tanti altri ancora) smentisce a proprio modo la (relativa) penuria di suoni emessi dalla sua attuale residenza polacca, pubblicando quasi in contemporanea, a breve distanza dall’enigmatico Ep “Breaks My Heart Each Time“, il quarto volume della serie di raccolte “Intrigue & Stuff” e celebrando il suo quarantesimo compleanno con le tre ore di musica di “We Drink To Forget The Coming Storm”, lavoro che per mole, contenuto e identità onomastica può essere collocato in una linea di continuità con il monumentale “Sadly, The Future Is No Longer What It Was” (2009).
Quaranta tracce, rese disponibili per quaranta giorni in download a offerta libera tramite la sua pagina Bandcamp, rappresentano il personale modo di Kirby di alzare i calici al cielo per celebrare l’emblematico traguardo anagrafico. Come di consueto, non vi è certo gioia nelle sue composizioni, bensì il senso della volatilità del tempo, da contemplare nel suo inesorabile scorrere o da sublimare nella persistenza della memoria, in entrambi i casi con il supporto meditativo di ipnotici soffi ambientali, ricamati dal riecheggiare di sparse note pianistiche e solo a tratti rifiniti con folate di archi che delineano un camerismo spettrale e notturno. Notturne e profondamente evocative sono del resto quasi tutte le tracce, che spaziano da brevi frammenti ambientali di un minuto e mezzo alla sinfonia di venti minuti alla quale è stato assegnato il numero trentuno: non solo in quanto un ascolto totalitario e consecutivo è impresa ben ardua, il contenuto e la modalità di fruizione del lavoro sono destinati a essere dichiaratamente disorganici, e la stessa disposizione delle tracce è indicativa.
Cercando un’ipotetica linea di sviluppo, per all’incirca la prima metà dei quaranta brani Kirby sembra aver seguito una tecnica di progressiva aggiunta dei pochi elementi costitutivi del lavoro, che parte da rarefazioni finissime per accogliere ben presto filigrane pianistiche, in seguito completate da abbracci d’archi, che ad esempio nella quindicesima traccia, lasciano trasparire persino barlumi di avvolgente romanticismo. Kirby gioca comunque con consumata classe sulla persistenza, riempiendo in tal modo di evocativo contenuto “hauntologico” composizioni che denotano la propria forza espressiva proprio nella resa complessiva di composizioni che, lungi dal poter essere considerate un semplice sottofondo, con la propria consistenza riempiono spazi sonori e avvincono la mente in un viaggio, la scelta della cui durata è liberamente rimessa all’ascoltatore.
Un gran bel modo per festeggiare un traguardo anagrafico, diluendo l’angosciosa attesa di tempeste future nell’alcool, nel ricordo e attraverso un nuovo monumento di tre ore di drone finissimi e screziature neoclassiche.