DANNY CLAY – Ganymede
(Hibernate, 2015)
Sempre più spesso pièce di musica classica costituiscono il punto di partenza per le opere di moderni scultori del suono: per il suo “Ganymede”, Danny Clay ha tratto spunto dall’omonimo pezzo di Schubert, a sua volta ispirato da un poema di Johann Wolfgang Goethe dedicato al linguaggio della natura e alla sua capacità di trasmettere messaggi di un’immanenza trascendente. L’apertura dell’opera di Schubert ha costituito la base sulla quale l’artista statunitense ha costruito un microcosmo naturalistico, filtrato attraverso la sua tavolozza di frammenti analogici e field recordings.
Ripartito in sei più brevi tracce, tutte intitolate “Glow”, e in due composizioni di lunga durata, “Ganymede” è un distillato di suono ambientale puro, fedelmente rappresentato nelle sue componenti concrete e quindi plasmato fino a farvi mutare forma e consistenza.
I sei “bagliori” sono un concentrato di gorghi liquidi e soffi vaporosi, la cui brulicante trasformazione incarna un risveglio primaverile, costellato da microsuoni inafferrabili e crepiti catturati anche grazie all’impiego di giradischi analogici, così fondendo componenti concrete e frammenti armonici. Diverso discorso riguarda i due brani finali, con il quarto d’ora di “Im Morgenglanze” che svaporano in un’ambience pullulante di ronzii ed esili saturazioni e i ventotto minuti della conclusiva title track che replicano l’armonia schubertiana in loop modulati secondo tempi e frequenze tutte di provenienza quasi ultraterrena.
Nelle sue diverse modalità comunicative, “Ganymede” adempie comunque in maniera calzante alla rappresentazione naturalistica connessa all’estetica esplicitamente richiamata quale fonte della sua creazione, tanto ambiziosa nelle premesse quanto surreale nei suoi esiti, un po’ come l’ascolto di un acquarello primaverile.