DEAD CAN DANCE – Toward The Within
(4AD, 1994)
If you were a sailor
I’d raise the anchor
To sail the sea
In search of you and me
And God
Quante volte il modo in cui la musica viene presentata o raccontata influisce sulla percezione che se ne ricava, a volte ancor prima di ascoltarla? Ovviamente ciò dipende anche dalla conoscenza pregressa dell’artista e dagli strumenti che l’ascoltatore ha per decriptare le informazioni che gli vengono fornite.
Pensate ai Dead Can Dance, all’alone di misticismo arcano che fin dal nome circondava la loro discografia già nutrita, a un adolescente un po’ impressionabile che se li vedeva presentati come sacerdoti di culti pagani (se non peggio), circondati da un’oscurità impenetrabile. Il risultato non poteva essere che di timore, persino di respingimento, o comunque di un senso di inquietudine come tale non certo propedeutico alla spontanea assimilazione di quanto di ricercato e, sì, tenebroso la band di Brendan Perry e Lisa Gerrard aveva realizzato in dieci anni di attività, dai goticismi dell’omonimo debutto (1984) alla religiosità esotico-esoterica di “The Serpent’s Egg” (1988) e “Aion” (1990), passando per le fondamentali aperture all’orchestra di “Spleen And Ideal” (1985) e “Within The Realm Of A Dying Sun” (1987).
Per fortuna, a superare l’erroneità delle impressioni preliminari ha provveduto, come sempre la forza della musica e quella della curiosità della sua scoperta, pur combinata con il fondamentale ausilio di un lavoro molto particolare dei Dead Can Dance, per certi versi il loro più “facile” fino a quel momento, e soprattutto il loro primo album registrato dal vivo in presa diretta e in seguito presentato anche nel formato video (in versione integrale qui). Benché non si tratti, forse, del disco più rappresentativo di Brendan Perry e Lisa Gerrard, “Toward The Within” (1994) è senz’altro riuscito a dischiudere e a rendere più ampiamente fruibile lo straordinario mondo interiore e musicale dei Dead Can Dance, aprendolo a un pubblico non più solo appartenente a quell’universo dark che, dopo gli anni Ottanta, stava diventando sempre più una nicchia.
Registrato a fine 1993 in California presso il Mayfair Theatre di Santa Monica (poche settimane prima della sua chiusura a causa dei danni subiti in seguito al terremoto del Northridge del 17 gennaio 1994), “Toward The Within” non è un semplice album dal vivo, ma un’opera che può valere a riassumere un intero percorso artistico, passato in rassegna attraverso le reinterpretazioni di quattro brani già presenti in dischi precedenti e ben undici inediti, tra tradizionali e originali. “Toward The Within” riassume infatti l’oggettivo interesse dei Dead Can Dance per la spiritualità, la loro ricerca di soluzioni musicali che abbracciano tradizioni musicali arcaiche e soluzioni dall’ampio respiro orchestrale e una crescente inclinazione per la scrittura di canzoni propriamente dette, interpretate da due voci semplicemente straordinarie, che senza iperbole alcuna possono considerarsi tra le più espressive degli ultimi trent’anni: quella profonda, animata da profondo lirismo di Brendan Perry e quella fortemente evocativa di Lisa Gerrard, inquieta sacerdotessa o forse strega capace di abbracciare lingue arcane e di smuovere corde primordiali.
Tutto questo è “Toward The Within”, un vaso di Pandora traboccante di sensazioni profondamente umane, dalla paura all’amore, dalla ricerca di una trascendenza a un dolore invece molto tangibile, veicolate dai linguaggi universali della musica e dell’emozione, a prescindere dalla loro verbalizzazione in inglese, soli vocalizzi dal forte contenuto evocativo o addirittura lingue esotiche o antiche.
Il lavoro – e dunque l’esibizione – muovono proprio dall’allora recente fascinazione di Perry per culture musicali antiche e per quelle orientali, dalle quali vengono tratte le componenti ritmiche e rituali dei primi tre brani in scaletta, il tradizionale “Persian Love Song” e i due originali “Rakim” e “Desert Song”, tra loro perfettamente complementari, così come la combinazione da essi conseguita tra componenti “etniche” e la poesia oscura dei Dead Can Dance.
Mentre quest’ultima, nelle sue componenti più rituali, è rappresentata in particolare nelle quattro versioni di brani già editi, tra le quali spiccano la struggente interpretazione a cappella di Lisa Gerrard di “The Wind That Shakes the Barley” e le angosciose invocazioni di spiriti di “Yulunga” e “Cantara”, in “Toward The Within” cominciano a scorgersi le premesse della progressiva divaricazione degli interessi estetici di Perry e della Gerrard, che di lì a poco avrebbe condotto a far separare i percorsi artistici dei due. Da un lato, le suggestioni lirico-orchestrali della Gerrard, che riprenderà la toccante “Sanvean” nell’album solista pubblicato l’anno successivo (“The Mirror Pool”), dall’altro quelle cantautorali di Perry, interprete palpitante di eros e thanatos nel tradizionale irlandese “I Am Stretched On Your Grave” e cantore di amore, razionalità e introspezione in canzoni scritte di proprio pugno, quali “American Dreaming” – piana e vibrante e ancora impregnata di ritualismo orchestrale – e le due essenziali ballate acustiche di quasi sola chitarra, voce e atmosfera, “I Can See Now” e “Don’t Fade Away”.
“You know life’s too short, let me bathe here in your smile” canta Perry alla fine di quest’ultima, coniugando con dolcezza straordinariamente efficace amore ed escatologia, prima di salutare i fortunati presenti all’esibizione (e dunque gli ascoltatori del disco) con un “goodnight” che ne manifesta la natura quasi di ninnananna, quasi impensabile se rapportata al precedente percorso della band e, soprattutto, alla percezione che in quegli anni ne veniva trasmessa.
È proprio per questo, per la sua forza in grado di trascendere qualsiasi condizionamento o valutazione aprioristica, che “Toward The Within” può non essere solo il ricordo del disvelamento dell’essenza dei Dead Can Dance nella sua interezza ma una sintesi della loro musica e un biglietto da visita estremamente esauriente per chi, ancora oggi, voglia addentrarvisi con mente aliena da pre-giudizi e cuore libero di farsi trascinare in luoghi e tempi lontani, sulle ali di sensazioni fortemente coinvolgenti.
per Viviana S.
“Sanvean” in memoria di Silvia (1990-2015)
in effetti li ho conosciuti e amati grazie a questo disco. fu una folgorazione
allora abbiamo avuto percorsi paralleli, ma del tutto coincidenti