JESSAMINE – The Long Arm Of Coincidence
(Kranky, 1996)
Gli albori dell’etichetta Kranky, da più di vent’anni indiscutibile punto di riferimento per proposte musicali stimolanti e fuori dal comune, erano stati caratterizzati in particolare dalle produzioni di due band tra loro ben diverse ma che ne avevano occupato buona parte della prima dozzina dei titoli in catalogo. Accanto ai Labradford c’erano infatti i Jessamine di Andy Brown e Dawn Smithson; benché le analogie tra le due band si limitino quasi soltanto alla contemporaneità dei rispettivi percorsi iniziali e, appunto, alla comunanza dell’etichetta, l’associazione tra loro e il conseguente stimolo alla scoperta era quasi inevitabile, almeno nell’immaginario di chi all’epoca si affacciava con curiosità su un mondo di suoni inusitati.
Pur provenienti da quella Seattle allora capitale dei grunge, i Jessamine guardavano molto lontano dal loro contesto geografico e artistico: mentre il rock più classico sembrava vivere di nuova linfa e l’elettronica entrava in maniera sempre più decisa nell’era digitale, i Jessamine (ri)scoprivano un mondo di valvole e transistor, di tastiere vintage e di chitarre incandescenti che descrivevano traiettorie spaziali.
Dopo un primo album omonimo del 1994, la cui impronta marcatamente psichedelica spaziava dal kraut-rock a robusti echi space-gaze, due anni dopo è la volta di “The Long Arm Of Coincidence”, dieci brani ripartiti anche nell’identificazione simbolica della tracklist tra “simulation” e “improvisation”, a caratterizzarne la duplice natura, appunto, di improvvisazione o di ragionata composizione. Anche da un punto di vista estetico, i riferimenti alle onde radio e alle rudimentali elementi della trasmissione elettrica, nonché l’essenziale artwork del cartonato che contiene il cd rimandano a una modernità pionieristica, rispecchiata in pieno dal denso contenuto dell’ora e un quarto di durata dell’album.
Quello di “The Long Arm Of Coincidence” è un lungo viaggio a bordo di una navicella spaziale alimentata da combustibile elettrico e analogico, che attraversa diversi mondi sonori, spesso distanti tra loro. Tratti comuni ne sono l’approccio estremamente scarno da parte della band, che eleva un’estetica lo-fi nemmeno ricercata a codice espressivo tanto di destrutturazioni e derive “free” quanto di esili linee melodiche incastonate in loop e iterazioni che danno luogo a una manciata di canzoni sospese a mezz’aria.
Se infatti è vero che, in particolare nei quattro brani di “improvisation”, il quartetto si abbandona a incalzanti derive strumentali la cui forma libera discende in maniera pressoché diretta dalle “overdrive” psichedeliche dei Can, va anche dato atto che “The Long Arm Of Coincidence” comprende delle alcune vere e proprie canzoni, guidate dal timbro evocativo di Brown e da quello suadentemente monocorde della Smithson, spesso intrecciati tra loro in delicati scambi al rallentatore. Sono proprio i tempi, scanditi dal basso della stessa Smithson e soprattutto dalla batteria a caratterizzare il lavoro, proiettandolo nella direzione del coevo post-rock dalle ascendenze jazzy o piuttosto di uno slow-core ipnotico e sognante.
Tale elemento decisivo si coglie fin dal binomio di apertura del disco, due tracce sostanzialmente unite (“Say What You Can”-“…Or What You Mean”), che vedono scambiarsi le voci e la preponderanza strumentale, con le chitarre che cedono il passo a tastiere analogiche rifinite da effetti vagamente acidi, mentre le asciutte linee ritmiche prima accelerano e poi si riavvolgono come un nastro in reverse. È solo il preludio alle soffici progressioni e agli intrecci vocali di “Periwinkle” e ai languori retro-futuristi di “Step Down”, senza dubbio quanto di più prossimo a una dimensione “pop” la band abbia realizzato in tutta la sua breve esperienza artistica. Se in questi brani si potrebbero addirittura cogliere affinità con i coevi Low, la parte del lavoro frutto di improvvisazione, vira in maniera più decisa su uno space-rock magmatico e allucinato (“Schisandra”) e su destrutturazioni spigolose a base di dissonanze e macchine sabotate (“It’s Cold In Space”, “Polish Countryside”), che dispensano le proprie frequenze disturbate per durate ben superiori ai dieci minuti.
Vi è tuttavia più di un punto di incontro tra lessico sperimentale e grammatica del songwriting nella visionaria circolarità di “The Long Arm Of Coincidence”, dimostrata dalla maggioranza di brani che assumono le sembianze di canzoni e dalla stessa equilibrata convivenza di parti cantate con code o iterative intro strumentali in “You May Have Forgotten” e “The Long Arm Of Coincidence Makes My Radio Connections”, due facce della stessa medaglia, nella quale le differenze tra improvvisazione e composizione scolorano come onde radio lanciate verso lo spazio infinito. Imbattervisi può non essere soltanto una coincidenza, ma la scoperta di un ponte tra passato e futuro possibile, vent’anni fa come ancora oggi.