memories: HEX

bark_psychosis_hexBARK PSYCHOSIS – Hex
(Circa, 1994)

Bagliori distanti al crepuscolo, riflessi di luci ai vapori di mercurio di una città industriale osservata dall’esterno, da una periferia intesa quale luogo figurato e dell’anima: non poteva trovare rappresentazione visiva più calzante il debutto sulla lunga distanza di una band dell’Est di Londra, già carico delle aspettative suscitate da una serie di singoli al principio degli anni Novanta (ultimo dei quali il monumentale “Scum”, traccia unica di oltre venti minuti), in seguito rifusi nella raccolta “Independency” e forse persino più rappresentativa dell’indole della band rispetto a “Hex”.

Di questo disco chiunque racconta in prima istanza come sia stato quello in riferimento al quale è stata coniata la definizione “post-rock”, impiegata da Simon Reynolds nella sua recensione scritta per Mojo. Mentre le enunciazioni di genere lasciano sempre il tempo che trovano – e proprio quella di post-rock è presto diventata altro, e di tutto – la novità “lessicale” racconta ben poco di quello che i Bark Psychosis hanno testimoniato a partire dai singoli e nel loro album di debutto. Lo stesso quartetto londinese ha in qualche modo suggerito la nascita di quella definizione, rifiutando con forza l’etichetta rock, dalle cui strutture le loro canzoni erano del resto ben distanti, limitandosi ad affermare senza alcuna pretesa che quanto realizzava fosse “semplicemente musica”, mentre a precisa domanda rispondeva semmai di accettare la definizione di ambient, nell’accezione di un’atmosfera tridimensionale, tattile, di un mondo tutto a sé.

Allo stesso modo, tanto complessa e variegata era la matrice artistica dei Bark Psychosis, che i quattro musicisti che, dopo un periodo di isolamento in Cornovaglia, hanno plasmato le sette tracce di “Hex” rifiutavano altresì il concetto di band. Oltre che dalle loro parole dell’epoca, lo si comprende dalla loro produzione, che dopo “Hex” ha contemplato soltanto un inaspettato dieci anni dopo (per il solo “Codename: Dustsucker”, 2004) e dagli eterogenei percorsi individuali seguiti da Graham Sutton, Daniel Gish, John Ling e Mark Simnett, i cui volti sono non a caso riportati in quadrilateri separati nello scarno libretto del disco.

Gli elementi esteriori e visuali costituiscono infatti parte integrante del messaggio dei Bark Psychosis, che anche nel contesto live avevano inserito, in maniera in quel periodo abbastanza inedita, la proiezione di immagini e cortometraggi. È la riprova di come la loro musica viva in simbiosi con l’ambiente, un ambiente per nulla astratto, per nulla immaginario, ma fortemente legato a una dimensione metropolitana, colta nei suoi aspetti più duri e post-industriali, niente affatto da cartolina eppure intrisa di un romanticismo sommesso, filtrato dalle interpretazioni soffuse ma sempre sul filo della tensione di Sutton e scandito da ritmiche jazzy e impulsi di tastiere liquide.
Nel corso del lavoro non mancano tuttavia gli spigoli, i graffi delle chitarre distorte, così come affiorano una varietà di soluzioni acustiche spesso eterodosse delle quali pullulano sette tracce dall’andamento mai lineari e ciononostante coese e densissime di pathos. Nessuna di essere finisce come è iniziata, ma anzi ognuna presenta variazioni, deviazioni e sovrapposizioni talora marcate, persino potenzialmente stridenti.

Invece non è mai così, a partire dalla melodia pianistica dell’iniziale “The Loom” che deraglia in claustrofobici passaggi percussivi, per proseguire con le chitarre taglienti che scuotono le sofferte confessioni di “A Street Scene” e “Fingerspit”, senz’altro distanti da un paradigma ambientale come lo si intende oggi ma perfettamente rappresentative dei tormenti personali e sociali di giovani inglesi cresciuti nell’era del thatcherismo. Di quella stessa città, i Bark Psychosis offrono tuttavia anche una percezione quanto meno marginale, condensata nella guida senza meta alle tre di notte di “Big Shot”, sublimazione dello spleen metropolitano veicolato in particolare dalle tastiere di Daniel Gish, anima “elettronica” del quartetto, che ammantano di una soffice coltre psichedelica anche la cadenze narcolettiche di “Absent Friend”.
All’inquietudine latente fanno da corrispettivo le vellutate timbriche jazzy della prima parte di “Eyes & Smiles”, che pure si avvitano in un crescendo di catarsi inesorabile e ossessiva nella sua vorticosa seconda metà, che sfiora quasi accenti free.

Non è un caso che ben quattro dei sette brani di “Hex” superino gli otto minuti di durata, alimentando l’analogia con cortometraggi dotati di una trama, di uno svolgimento articolato, che nei soli titoli di coda dello strumentale di chiusura “Pendulum Man” trova pacificazione ipnotica ed emblema di sentimenti combattuti, sospesi a metà, indefiniti come la musica di un disco davvero sfuggente alle definizioni. Forse proprio per questo, per poterne parlare al tempo della sua pubblicazioni se ne sono a ragione cercate di nuove, magari accostate a rifermenti in seguito evaporati come quelli a David Sylvian e Robert Wyatt, dei quali in fondo, a ben vedere, “Hex” incarna eleganza e caratteri visionari. “Hex” era tuttavia – ed è a pieno titolo ancora oggi – soprattutto lo spaccato di una floridissima congiuntura creativa, la sommatoria di quattro personalità solitarie in una testimonianza sonora da autentici outsider, appassionata, lucidissima e davvero inusitata.

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