memories: THE WHITE BIRCH

codeine_the_white_birchCODEINE – The White Birch
(Sub Pop, 1994)

C’è stato un periodo nel quale, quasi come risposta a un mondo che correva sempre più veloce e a una temperie musicale che aveva riscoperto l’adrenalina del rock sotto forma del grunge, improvvisa è cominciata a manifestarsi un’inversione di marcia, anzi di tempi. Si trattava, in fondo, di una reazione ai tormenti e alle incertezze di un tempo caratterizzato da transizioni politiche e tecnologiche diversa, anzi opposta a quella che rispondeva con l’impeto, con la liberazione della tensione; quella stessa tensione veniva invece quasi assaporata nelle sue pieghe più minute, come anestetizzata in una condizione di ostentata atarassia, o piuttosto di percezione depotenziata, come se la lentezza e uno stato di perenne sonnolenza potessero allontanare dal dolore.

Erano i primi anni Novanta, gli albori di quello slow-core in seguito e tutt’oggi perpetuato in tante diverse forme, e non a caso tra gli alfieri di questo modo inusitato di declinare la sporcizia del rock vi era una band la funzione analgesica della cui musica era consacrata nel suo stesso nome. Il quartetto newyorkese dei Codeine nasce a fine anni Ottanta per iniziativa del chitarrista di Louisville Dave Grubbs, reduce da esperienze post-punk negli Squirrel Bait e nei Bastro, e protagonista di una parabola artistica tanto breve quanto intensa e significativa.

Il lascito dei Codeine è di soli due album, la scelta tra i quali è davvero ardua: se infatti “Frigid Stars” (1991) è il debutto che dischiude un mondo al rallentatore, fatto ancora di sfuriate elettriche e disperate litanie poco più che recitate, “The White Birch” ne è la consacrazione sotto forma di una consapevolezza tradotta in qualcosa di più fluido dal punto di vista del songwriting e di più lucidamente cadenzato nei tempi e negli incastri compositivi. Merito senz’altro della maturazione di un linguaggio inizialmente “di rottura”, che nel frattempo aveva cominciato a fare proseliti (il debutto dei Low è coevo di “The White Birch”), ma anche dell’ingresso in formazione, in luogo del pur ottimo Chris Brokaw, del maestro delle percussioni Doug Scharin (in seguito nei June Of 44), che insieme al basso di Stephen Immerwahr, voce della band, costituiva una sezione ritmica granitica e “matematica”.

Da queste premesse nascono dunque le nove canzoni di “The White Birch”, che innanzitutto sono appunto “canzoni”, come lasciava presagire lo stesso singolo d’anticipazione “Tom”, con la sua miscela di cadenze narcolettiche e fluidi rilanci distorsivi, tra i quali si distinguevano linee armoniche nervose e un cantato ormai riconoscibile come tale. Sono questi gli ingredienti ricombinati lungo il tour de force emotivo di nemmeno tre quarti d’ora del lavoro, a cominciare dalla monolitica apertura di sette minuti “Sea”, una vibrante altalena di tempi e variazioni di intensità che si innalzano e tornano placidi come una marea.

Non si tratta affatto di un cedimento a una maggiore “facilità” d’ascolto rispetto al debutto, perché anche quando le linee armoniche si fanno definite, ancorché dall’incedere cantilenante, come in “Loss Leader” e in “Vacancy”, continuano ad affiorare gli spigoli di chitarre angolari e ritmiche straordinariamente secche. Benché più volte le interpretazioni di Immerwahr sfiorino il grado zero di toni da confessionale (“Kitchen Light”, “Wird”), non manca mai il momento di liberazione della tensione, sotto forma di ripetuti spasmi distorsivi. È l’anima (post-)punk, che si dibatte inquieta, muovendosi carsicamente sotto il torpore di un anestetico che richiede somministrazione continua; è la stessa anima che, assorbito l’effetto, diventa fluida teoria di timbriche chitarristiche scandite da ipnotici stop-and-go in “Washed Up” e nella conclusiva “Smoking Room”, ponti ideali verso un emo-core che nel post-rock louisvilliano troverà una sorta di ritorno alle origini di Grubbs e una traccia lanciata verso un futuro non ancora esauritosi.

Per questo quella di “The White Birch” resta una testimonianza straordinariamente vivida di una via diversa alla destrutturazione post-punk, una dichiarazione di appartenenza alla “setta dei rallentatori di mondo” (cit.) che tutt’oggi continua a generare proseliti, ma soprattutto una corsa (ovviamente al rallentatore) su montagne russe emotive che rispecchiano tutta l’inquietudine di una post-modernità in vana fuga dalla sofferenza del sentimento e, in definitiva, da se stessa.

http://heartofthunder.com/codeine/

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3 commenti Aggiungi il tuo

  1. Antonio M. ha detto:

    disco eterno, a quanto pare abbiamo un percorso e sensibilità musicale molto affine poiché ho l’impressione che la rubrica “memories” porta dal profondo sensazioni e ricordi intensi che hanno fatto parte della vita, di un epoca come spaccato culturale, sociale e personale.
    Sicuramente in stato di grazia, mi ricorda il primo degli Spain, più sporco e sofferto, un documento e presa di coscienza di un epoca ove urge il concetto “di tempo”; poi sentire il missaggio di certi dischi mi ricorda come non ci volesse granché di rumore ne di particolari lavori sul suono per sentire la musica sulla pelle.

    1. rraff ha detto:

      Vero, chi ha vissuto quegli anni intensamente, da adolescente o poco più, non può dimenticare suoni e sensazioni di quello spaccato di transizione a tutto tondo.
      Condivido in pieno la tua lettura (anche per quanto riguarda il missaggio!) e anche il ricordo degli Spain, altra “memory” già tale, e pure attualissima, visto che stanno per tornare con un nuovo grande disco. E non a caso i “vecchi” Codeine e i “nuovi” Spain di oggi saranno fianco a fianco nella playlist radiofonica di stasera.

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