BD HARRINGTON – The Diver’s Curse
(Microcultures, 2016)
Un po’ come il suo connazionale (e primo estimatore) Barzin, BD Harrington sta via via arricchendo il compassato intimismo in media fedeltà dei propri esordi, irrobustendolo di strutture e sonorità più affini a un classico cantautorato folk elettrico. Benché anche nel suo terzo album “The Diver’s Curse” non svaniscano del tutto tracce di un lirismo dai toni umbratili, nel caso di Harrington la transizione è decisamente più sensibile e condensata in un arco temporale ristretto rispetto al precedente “Regarding The Shortness Of Your Breath” (2013).
Tra gli undici brani che lo formano non mancano passaggi di vellutato intimismo (ad esempio “Boxers”, la ballata pianistica “Contamana” e “One Match Left”, con il suo ovattato picking acustico), ma i caratteri salienti del nuovo disco si riscontrano piuttosto nelle cadenze ritmiche decise e in una grana elettrica che devia lo stile dell’artista canadese verso un songwriting dai tratti elettrici classici, interpretato attraverso un crooning riflessivo che può far pensare a Bill Callahan.
Così, mentre un brano come “Sleepy John” combina la sensibilità originaria di Harrington con la nuova dimensione da band, seguendo molto da vicino le orme del Barzin di “To Live Alone In That Long Summer”, in brani quali “Black Waves” o “Apple Cart” affiorano sensazioni polverose country-folk, appena temperate dal tono ancora placido delle interpretazioni.
Anche queste, in fondo, sono prove di una transizione che si inscrive nella continuità, quella di un artigiano delle canzoni che nelle sue creazioni rifonde la propria sensibilità schiva, senza indulgervi eccessivamente ma anzi colorandola, a tratti, con tinte più decise.