HALIFAX PIER – The Halifax Pier
(Temporary Residence, 1999)
Quando tutto (o quasi) era post-rock e bastava la presenza di arrangiamenti d’archi per scompaginare i canoni della musica alternativa usualmente intesa, cominciava la breve stagione di una band, anzi di un piccolo collettivo aperto, di quelli non destinati a riempire pagine delle ricostruzioni musicali enciclopediche ma senz’altro i cuori di chi all’epoca lo intercettò o di chi oggi ne riscoprisse l’esiguo lascito.
Si trattava di un’idea coltivata da alcuni musicisti operanti in diverse zone degli States, ma dotata di un nucleo stabile di sei elementi, guidati dai due chitarristi Nathan Salsburg e Charles Sommer e comprendente anche batteria, violino e violoncello. Erano gli Halifax Pier, già a cavallo del passaggio di secolo un culto per pochi appassionati, ma un’esperienza che anche a quasi due decenni di distanza continua a riecheggiare in tanto chamber-folk attuale, oltre che ovviamente nell’intensa attività solista o collaborativa di Salsburg.
Chamber-folk, sì, perché la formazione strumentale e le ariose ballate che costituivano parte dell’omonimo debutto della band inclinavano verso un romanticismo acustico inusitato per la temperie artistica del tempo, che pure nei sei brani del lavoro conviveva in perfetto equilibrio con cadenze ritmiche asciutte e segmentate (dalle parti appunto del post-rock più “matematico” e jazzy) e con forme dei brani sostanzialmente libere, tanto da accedere in più di un caso a durate considerevoli.
Registrato a Louisville (altro segnale di affinità con coeve esperienze della città del Kentucky), per un terzo in una chiesa battista, l’album consta di sei tracce dal prevalente carattere strumentale, animate da uno spiccato romanticismo, veicolato tanto dall’esclusiva opzione acustica quanto appunto dalla delicatezza cameristica di melodie sovente funzionali a vere e proprie canzoni.
Il carattere lieve e riflessivo, ma non del tutto dimesso, che caratterizza il lavoro ricorre fin dal semplice strumentale “Untitled”, sei minuti di arpeggi acustici cristallini e armonie d’archi, coniugate in un unicum omogeneo e bucolico, appena scandito da ritmiche ovattate e quasi distratte. Da tale premessa, ci si sarebbe potuti attendere un album strumentale dalle intricate trame acustiche, invece già la successiva “Voices From The Front Line”, introdotta da dolenti melodie d’archi, comincia a delineare la cupa poetica delle canzoni degli Halifax Pier, pennellando una ballata intrisa di racconti di guerra e nostalgia.
Del tutto peculiare è anche il registro narrativo incarnato dai testi e dalle interpretazioni; alla levità melodica fanno infatti da contrappunto non solo spaccati malinconici e descrittivi, ma soprattutto aspre storie di battaglie arcane, uccisioni, memorie. Così anche l’accorata “Strange News From Another Star”, con la sua descrizione di immagini di morte (“They took us to see the bodies lying cold on the bedroom floor / but through their thin shrouds our parents smiled as though we had still won this war”, “these cities are built on tombstones and graves”) e rovine (“we wandered to the ruins of the house we were born in and the backyard we lay in”), quasi stride con la leggerezza emozionale degli arrangiamenti d’archi, che suggellano il cantato sentito e vagamente nasale di Salsburg.
Testi, mood e vesti sonore collimano maggiormente in “Chance To Leave” e “Halifax Bound”, che offrono una diversa declinazione dei legami con i luoghi e con il passato, attraverso melodie narcolettiche e cadenze sognanti, espresse nel delicatissimo duetto della prima, in odor di Low e Cocteau Twins, e nelle reiterate trame elettroacustiche prolungate fino agli oltre undici minuti della seconda. In questi brani è, infatti, la nostalgia a prendere il sopravvento, insieme alla consapevolezza della necessità del distacco, per imprimere la svolta a un’esistenza (“If I had a chance to leave I don’t know where I’d go / this city street I’m on leads everywhere but home / the light is all I feel / twilight sets in and I’m feeling lost again”).
È qui che l’essenza della musica degli Halifax Pier si manifesta in tutta la sua fragile bellezza, che vive sul perfetto equilibrio tra ballate di folk acustico e la dolcezza crepuscolare di arrangiamenti acustici e bozzetti armonici dai tempi diradati. Tutti elementi, infine, consacrati nella conclusiva “The Old Constellations”, con i suoi crescendo dinamici e i continui rilanci di archi, che passano dai florilegi che accompagnano la parte cantata alla costante tensione della coda strumentale, adeguato congedo di un disco prezioso nella sua essenzialità e soprattutto nel suo romanticismo, tale da coniugare senza artifici pathos istintivo e razionalità creativa.