intervista: JULIA KENT

Mentre un pubblico più vasto l’ha conosciuta come “la violoncellista di Antony And The Johnsons”, Julia Kent conduce da oltre un decennio uno straordinario lavoro di ricerca sulle potenzialità solitarie del suo strumento. In cinque album e innumerevoli collaborazioni, l’artista canadese ha conseguito un’ambiziosa autosufficienza espressiva – culminata nella dimensione armonica del recente “Temporal” – che attraverso iterazioni ed effetti ha proiettato la ricchezza timbrica del violoncello ad associarsi anche a immagini, pièce teatrali e performance di danza.


Che tipo di formazione musicale hai ricevuto? A quando risale il tuo primo approccio con il violoncello?
Ho cominciato a suonare il violoncello quando avevo circa sei anni e da allora ho seguito una formazione classica molto convenzionale. Sono felice di aver avuto un simile background, perché ritengo che per fare musica sia importante avere quel tipo di prospettiva, anche mi ci è voluto molto tempo per trovare un mio percorso personale al di fuori dell’ambito classico.

Quali artisti in particolare consideri importanti per lo sviluppo della tua personalità musicale o comunque affini al tuo modo di fare musica?
Considero sempre Arthur Russell una sorta di pietra angolare, quale artista che è stato in grado di creare un proprio mondo sonoro intimo e idiosincratico intorno al violoncello. La sua opera è per me fonte di grande ispirazione perché il suo modo di fare musica sembra come un’espressione spontanea di un universo emozionale personale, che abbraccia tanto l’avanguardia quanto il pop. Inoltre, il modo in cui si esprimeva era estremamente coraggioso: non dimenticherò mai la sua straordinaria esibizione di molti anni fa sotto il ponte di Brooklyn. Per me si tratta di un’autentica icona.
Oltre a lui, molti altri incredibili artisti sono stati per me fonte di ispirazione, anche al di fuori del campo musicale. Tra i violoncellisti, citerei anche Charlotte Moorman, della quale ammiro il fascino e lo spirito ardente, e Tom Cora, che ha condotto lo strumento verso nuove direzioni espressive.

Qual è la tua condizione ideale per comporre? Quali sono le tue principali fonti di ispirazione?
Mi sento particolarmente a mio agio a comporre nell’ambiente raccolto del mio studio, perché apprezzo avere libertà e autonomia per farlo e ritengo che questa sua la condizione migliore per poter spaziare con le sperimentazioni e creare qualcosa di autentico. A volte è questo stesso processo creativo a ispirarmi, perché lo percepisco come una fonte di apprendimento costante, che di volta in volta ha ad oggetto la tecnologia, la tecnica o l’espressione.

Come descriveresti il significato e la finalità, sia personale che artistica, della tua musica? c’è qualche messaggio che intendi condividere anche senza l’impiego della forma verbale?
Sono convinta che creare musica abbia davvero a che fare con il desiderio di comunicare emozioni e che provare a farlo attraverso musica strumentale richiesta grande fiducia nell’ascoltatore. Le parole possono essere mediate, creano un’impalcatura e anche un’armatura, perché hanno bisogno di essere analizzate e interpretate, mentre per me fare musica senza le parole mira a costituire un’interazione molto diretta. Cerco sempre di raggiungere le persone, senza parole, senza spiegazioni, senza mediazione, ed è splendido quando in questo modo si riescono a realizzare delle connessioni. Che la musica sia un linguaggio universale può suonare come un cliché, ma è anche altrettanto vero, è qualcosa che tutti condividiamo. Amo il fatto di poter viaggiare in qualsiasi luogo essendo in grado di comunicare a prescindere dalla lingua, in modo da trovare una comunanza tra persone che vivono sulla stessa terra, in particolare in un momento nel quale sembra che vi siano così tante barriere.

Ritieni che faccia una qualche differenza, per gli artisti che fanno musica sperimentale a partire da strumenti “classici”, aver avuto un retroterra accademico rispetto ad applicare un approccio puramente istintivo?
Senz’altro l’impiego di uno strumento classico può creare delle aspettative. Vista la mia provenienza dal mondo classico, almeno come formazione, ho impiegato molto tempo per sentirmi sufficientemente sicura da poter comporre musica originale. Fino ad allora non pensavo proprio di poter fare qualcosa di valido… e forse è così anche oggi! Ma si tratta semplicemente del modo in cui esprimo la mia personalità e spero che questo sia percepito dalle persone che ascoltano la mia musica. In ogni caso, sono felice di avere ogni volta questa opportunità espressiva.

Per quanto possano contare le definizioni, pensi che quella di “modern classical” sia appropriata per descrivere le intersezioni tra musica elettronica e approcci minimali applicati a strumenti classici?
Mi trovo sempre più disorientata rispetto a quello che “modern classical” possa significare, visto che è diventata una definizione praticamente onnicomprensiva e mi domando se questo sia positivo. Quando un genere si espande così tanto smarrisce il suo stesso significato, mentre affiora tutta una serie di micro-generi, probabilmente più che altro per motivi di marketing. Se si analizza la storia della musica classica, fino a un certo punto i vari stili potevano essere definiti soltanto in presenza di una prospettiva temporale sufficientemente lunga, mentre adesso è praticamente impossibile che la musica non venga immediatamente etichettata.

Il violoncello sembrerebbe uno strumento piuttosto “difficile” da essere eseguito in forma solista: come sei riuscita a trovare un equilibrio tra il minimalismo strumentale e la varietà di suoni che riesci a ricavare utilizzando pedali ed effetti?
È uno strumento fantastico da suonare, perché le persone vi si relazionano in maniera splendidamente immediata. È dotato di un’estensione di frequenze paragonabile a quello della voce umana e, per me, costituisce la mia stessa voce. Inoltre, si adatta a tanti diversi contesti musicali. Quando compongo posso partire dal violoncello e aggiungere strati di suoni elettronici, oppure operare al contrario; ciò che di più interessante mi permette di fare è sfumare ogni volta il confine tra le componenti organiche ed elettroniche dei miei brani.

Quale relazione ritieni possa sussistere tra la tua musica e le immagini?
Mi sono occupata di alcune colonne sonore, ed è una cosa che amo fare. Quando è ispirata dalle immagini e dal mondo emozionale di un film, la musica deve atteggiarsi in maniera completamente differente, così come diverso è il processo che la ispira.

Nel corso degli anni, sei stata protagonista di numerosi diverse collaborazioni: trovi qualche differenza a lavorare da sola e con altri artisti? Pensi che queste collaborazioni abbiano completato il tuo modo di fare musica?
Ho certamente imparato tantissimo dalla pratica accanto agli incredibili artisti con i quali sono stata così fortunata di poter collaborare e queste esperienze hanno senz’altro influenzato il mio modo di fare musica. condividere il mondo musicale di qualcun altro è sempre un privilegio.

A parte coloro con i quali hai già collaborato, c’è qualche artista con cui ti piacerebbe lavorare in futuro?
Oh, ho una lunga lista dei desideri di artisti con i quali sarei entusiasta di collaborare! E proprio ora sto lanciando messaggi subliminali a tutti loro!

L’impiego di loop e ripetizioni è spesso ricondotto al concetto di ”hauntologia”. Si tratta di qualcosa che senti vicino alla tua idea di musica? E, in generale, quanto ritieni importante l’aspetto concettuale, in particolare nella musica sperimentale?
È molto interessante, anche se non ci ho mai davvero pensato. Una connessione può certamente esserci, soprattutto nella misura in cui, attraverso i loop, vi è sempre la possibilità che le ripetizioni diano luogo ad entità fantasmatiche. Così, il passato entra nel presente e, ovviamente, i loop comprimono il tempo attraverso la giustapposizione di strati sonori. Nel corso dell’elaborazione di “Temporal”, mi sono concentrata molto sul tempo, anche se in maniera circoscritta alla natura effimere delle forme artistiche incentrate su una dimensione temporale.
Per quanto mi riguarda, l’aspetto concettuale riveste un ruolo molto importante, non necessariamente per comporre, ma di certo per assemblare un album.

Mentre il tuo precedente lavoro “Asperities” era ampiamente incentrato su dissonanze, “Temporal” presenta un suono più organico e melodico. Cos’è cambiato nel tuo focus creativo tra i due dischi?
“Temporal” ha preso forma a partire da musica composta per il teatro e per performance di danza e proprio per questo ritengo possa sembrare più organico, perché è stato concepito in reazione alla disperata fragilità dei corpi che si muovono nello spazio, in luogo dell’idea del conflitto, sia tettonico che personale, che ha ispirato “Asperities”. Durante la sua elaborazione, il nuovo disco è diventato una meditazione sul tempo, che è appunto un concetto che va di pari passo con quello di armonia, visto che sono entrambi, in qualche modo, tentativi dell’uomo di imporre un proprio ordine al mondo naturale.

Vederti suonare dal vivo è un’esperienza alquanto ipnotica, visto che riesci a catalizzare l’attenzione e a “riempire” il palcoscenico da sola con il tuo violoncello. In generale, quanto contano i luoghi nei quali suoni?
L’ambiente nel quale suono riveste una fondamentale importanza. In Italia ho avuto la possibilità di suonare in tanti splendidi posti e per questo mi ritengo davvero fortunata. Nell’interazione con un luogo esiste sempre qualcosa che detta l’atmosfera e in questo senso la storia di un luogo può comunicare una forte e peculiare ispirazione.

Cos’altro ci si può aspettare da te nel prossimo futuro e cosa invece ti aspetti tu dalla musica?
Sono in tour per presentare il nuovo disco e ho in corso alcuni progetti legati al cinema e alla danza. Sono felice di avere la possibilità di fare musica e, spero, di connettermi per suo tramite con le persone.

(pubblicato su Rockerilla n. 463, marzo 2019)
(English version)

http://www.juliakent.com/

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