TINDERSTICKS – No Treasure But Hope
(City Slang, 2019)
Dopo la rinascita, la ritrovata consuetudine e la costanza di una presenta sempre affidabile, ma non per questo affatto scontata: con “No Treasure But Hope”, il secondo periodo della vita artistica dei Tindersticks, ripresa a sorpresa con “The Hungry Saw” nel 2008, eguaglia per durata la prima, cominciata con i due veri e propri capolavori omonimi, pubblicati tra il 1993 e il 1995, e andata via via sfumando fino alla momentanea interruzione del 2003.
Chiaramente il ritrovato sodalizio tra Stuart A. Staples, David Boulter e Neil Fraser si è attestato su premesse ben diverse rispetto a quasi trent’anni fa e, pur non possedendo più la carica di tormento degli esordi, dal momento in cui la band si è ritrovata, presenta una maturità e una consapevolezza dei propri mezzi artistici che continua a dispensare lavori di grande classe che, declinati al presente, recano la firma inconfondibile delle interpretazioni da crooner di Staples e di orchestrazioni dall’eleganza tenebrosa e naturalmente cinematica.
È quel che avviene, puntualmente, anche nei dieci brani di “No Treasure But Hope”, che trasudano una naturalezza e una confidenza espressiva, tuttavia ben distante dal manierismo o da un approccio soltanto estetizzante. A metterlo in chiaro è già la compunta ballata pianistica “For The Beauty”, alla quale seguono dolenti confessioni in penombra di “Trees Fall” e “Carousel”, ma anche esultanti aperture orchestrali, rivestite di velluti antichi e di nuove sfumature soul (“The Amputee”, “Tough Love”). Su tutte spiccano le soluzioni di arioso lirismo di “Pinky In The Daylight” e le residue tracce di obliqua inquietudine di “See My Girls”, che suggellano la matura brillantezza espressiva dei Tindersticks, da non considerare più band ritrovata, ma band dal profilo unico, che continua a esserci sempre.