LAST DAYS – Satellite
(n5md, 2013)
Più in altro di un nord immaginario, verso le stelle e ancora oltre: è l’immensità di misteriosi spazi cosmici la meta delle esplorazioni ambientali di Graham Richardson, al quarto album sotto l’abituale alias Last Days dopo una pausa di oltre quattro anni dal precedente “The Safety Of The North”.
L’ora abbondante di “Satellite” costituisce la naturale prosecuzione di quel lavoro, nel quale l’artista inglese aveva sublimato attraverso armonie estatiche rapite rarefazioni emozionali, amplificata in una coesa sinfonia costituita da soffi ambientali e drone finissimi, ricamata da note di pianoforte e, nuovamente, da un cammeo vocale. È quest’ultimo, inevitabilmente, a richiamare curiosa attenzione, tanto per l’interpretazione di Beth Arzy quanto per l’inedita veste dream-pop che la sua voce dona a “New Transmissions”), nonostante non si tratti di una novità assoluta per Richardson, poiché già il lavoro precedente presentava un’ospite vocale nella persona di Fabiola Sanchez dei Familiar Trees.
Le carezzevoli melodie dell’unica vera e propria canzone tra le quattordici tracce di cui si compone “Satellite” rappresentano soltanto una traduzione, in forma tanto diversa quanto emblematica, di quanto nel corso di tutto il lavoro si svolge con sull’equilibrio di ininterrotte correnti emozionali, sviluppate tanto nelle componenti più lievi ed eteree quanto concretizzate in saltuarie emersioni di feedback. È tuttavia uno struggente romanticismo, mirabilmente stabilito dall’iniziale “Theme” di pianoforte e archi, il filo conduttore del disco, declinato secondo ulteriori fragili frammenti di minimalismo neoclassico (“Glow”, “Fidra”) o crepitanti istantanee di field recordings di effetti naturalistici o di rumore pulviscolare.
L’integrazione tra tali elementi e la viva materia di drone sinuosi, talora inarcati in progressivo condensamento di torsioni elettriche o sintetiche (“Escape Velocity”, “Expecting Miracles”), sfocia in sinfonie ambientali, idealmente scolpite da maree droniche in graduale crescendo o svaporate in abbracci sognanti comparabili soltanto a quelli degli Hammock o dei Sigur Rós più rarefatti. E non è un caso che siano proprio i brani più lunghi, ovvero la title track e i quasi undici minuti di “To The Sky”, a dare libero sfogo alla toccante vocazione cinematica di Richardson, che si conferma tanto abile cesellatore di miniature quanto raffinato artefice di un’ambient orchestrale che così suggestiva e coinvolgente si è sentita ben di rado dai tempi di “Copia”.
Immergersi nel viaggio sonoro ed emozionale di “Satellite” non sarà sufficiente a raggiungere le stelle, ma potrà certamente farle apparire meno lontane.
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