PUZZLE MUTESON – Theatrics
(Bedroom Community, 2014)
Tre anni fa, l’incontro di note acustiche e palpitanti vibrazioni vocali con gli arrangiamenti di archi di Valgeir Sigurðsson e Nico Muhly aveva reso il suo debutto ufficiale “En Garde” un gioiello prominente rispetto alla media di pur valide proposte cantautorali. Per il suo secondo lavoro, Terry Magson, l’artista inglese che ama celarsi sotto l’enigmatico alias Puzzle Muteson, non si è tuttavia accontentato di replicare la formula, nonostante anche le undici tracce che compongono “Theatrics” siano state registrate presso gli islandesi Greenhouse Studios e prodotte dallo stesso Sigurðsson insieme a Boe Weaver.
Alla costante della scrittura lineare e delle emozionali interpretazioni di Magson, corrisponde nell’occasione un registro strumentale ancor più discreto ed essenziale: alle ariose orchestrazioni d’archi del debutto si sostituiscono in prevalenza fondali sonori ovattati, sui quali note e voce sono lasciate libere di risuonare, disegnati da moderati flussi sintetici e connotati con una spiccata attenzione per gli elementi ritmici in grado di saldarsi a quelli prodotti dalla danza delle sue dita sulle corde della chitarra acustica o – come più spesso accade adesso – sui tasti del pianoforte. Sono i soffusi abbracci elettronici di Sigurðsson e i synth di Muhly e di Rutger Zuydervelt (Machinefabriek) ad amplificare le canzoni del songwriter inglese, non per questo meno propenso a un dimesso romanticismo né tanto meno improvvisamente colto da tentazioni sintetiche.
In realtà, non vi sono stridenti differenze di registro rispetto a quanto aveva impressionato nel debutto, anzi la rinuncia all’impianto orchestrale degli arrangiamenti permette addirittura agli elementi cardini delle canzoni di assurgere in primo piano su uno spazio sonoro dilatato e, di fatto, impalpabile, definito quasi soltanto dalle vibrazioni del glockenspiel e da percussioni altrettanto sfumate. Eppure, il risultato complessivo dei brani è estremamente organico, parimenti orchestrale nella concezione piuttosto che negli strumenti, come si coglie nell’apertura corale di “Belly” e nello splendido duetto vocale di “By Night”, straordinario duetto con Chantal Acda.
Benché non manchino scarne istantanee chitarra-e-voce, nelle quali Magson rispolvera un fragile intimismo drake-iano a base di picking e interpretazioni agrodolci (“We Are One”), al più puntellato da iterate cadenze ritmiche (“River Women”), è la presenza preponderante del pianoforte a plasmare in maniera decisiva il significato evolutivo di “Theatrics” nel breve percorso dell’artista inglese. Ballate notturne e quali “Bells”, “Winter Hold” e “City Teeth” ne ridefiniscono il profilo, includendovi qualità di un Anthony spogliato dall’enfasi e filtrato attraverso la fragile emozionalità di Christopher Barnes (Gem Club). Il binomio che conclude l’album, poi, appare un duplice sguardo a propensioni passate e (forse) una traccia per il futuro, sotto forma di un’incredibile cover di “True Faith” dei New Order e dello scoloramento del pianoforte in arpeggi di synth di “Chair”.
Ma soprattutto “Theatrics” è una nuova testimonianza di un artista di rara sensibilità e capacità espressiva, che in una dimensione se possibile ancor più essenziale e umbratile, per quanto ingegnata con estrema cura da validi collaboratori, trova il contesto per far rifulgere le sue canzoni schiette e cristalline, che sanno parlare direttamente al cuore.