intervista: THE CHILD OF A CREEK

Dopo aver da poco dato alle stampe due album in contemporanea (“Quiet Swamps” e “Hidden Tales And Other Lullabies“), Lorenzo Bracaloni racconta lo sfaccettato universo umano e artistico che alimento il suo solitario progetto The Child Of A Creek, facendone un’esperienza peculiare nell’approccio folk e nel contesto italiano in generale.

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Puoi raccontarci il tuo background musicale e i tuoi primi approcci artistici?
Ho iniziato a suonare la chitarra acustica dall’età di otto anni ed il merito è tutto di mio padre che, in quegli anni, amava sedersi accanto al camino e arpeggiare brani dei Beatles e di Simon & Garfunkel. Mi rapiva e affascinava vedere quelle dita destreggiarsi tra corde e tasti. In casa si ascoltavano Beatles, Rolling Stones, Sinatra e sicuramente, da bambino, quelle cose mi hanno segnato e fatto sognare. Ho conosciuto e amato poi Pink Floyd e Syd Barrett, Jefferson Airplane, Grateful Dead, Pentangle e Bert Jansch, Mellow Candle, Fairport Convention, Donovan, John Fahey, Robbie Basho, Incredible String Band, Yes, Gentle Giant, Black Sabbath, Rainbow, Popol Vuh, Amon Duul, Klaus Schulze, Kraftwerk, Tangerine Dream, Mike Oldfield, Dead Can Dance, Cocteau Twins etc. Ho scritto i miei primi brani e i primi testi (in inglese) intorno ai quindici anni.

C’è qualche artista che consideri importante nella tua formazione musicale, o almeno qualcuno che senti vicino al tuo modo di fare musica?
Certamente, più di uno. Primo tra tutti David Gilmour per il tocco, poi direi Conny Veit dei Popol Vuh per l’approccio e la magia e i Dead Can Dance, che porto nel cuore per la purezza (e non solo).

Com’è nato il progetto The Child Of A Creek?
The Child of A Creek nasce alla fine del 2003, dopo circa nove anni come chitarrista fondatore di una band. Il mio desiderio era quello di abbandonare (almeno in parte, all’inizio) gli strumenti elettrici ed elettronici, per tornare alle mie radici, quando imbracciavo la Eko del ’75 di mio padre e arpeggiando, componevo i primi brani della mia vita e scrivevo i primi testi, ma anche per il mio amore per gli anni ’60 e ’70.

Da che cosa proviene solitamente la tua ispirazione? In particolare, quale ruolo hanno l’ambiente naturale e le suggestioni che ne trai?
L’ispirazione può arrivare da qualsiasi cosa: un paesaggio rimasto impresso, personaggi di un libro, esperienze di vita, rapporti, sogni etc. Devo dire che, come The Child of A Creek, il filo conduttore che lega un po’ tutti i miei album fino ad oggi è sicuramente l’Amore e la Devozione per Madre Natura. I miei album presentano e raccontano storie, sentimenti e domande che i vari personaggi si pongono e alle quali cercano, con i loro punti di vista, di dare risposta, ma anche e soprattutto, l’osservazione e la contemplazione del Mondo Naturale, che in un modo o nell’altro, condiziona la nostra esistenza. I miei dischi sono come diari, che di volta in volta, si arricchiscono di nuovi elementi.

Prediligi un approccio istintivo o, in un certo senso, “ragionato” alla scrittura?
Assolutamente istintivo. Non decido mai niente a priori: che si parli del suono da dare ad un disco oppure degli argomenti da trattare. Imbraccio la chitarra acustica oppure l’elettrica, mi siedo al piano oppure ai sintetizzatori, ma il mio metodo è una sorta di improvvisazione, nella quale sono le stesse composizioni ad impormi/suggerirmi colori e umori.

Scrivendo a proposito di “Find A Shelter Along The Path”, mi era capitato di fare riferimento al folk visionario degli Espers, al fingerpicking di James Blackshaw e al neo-folk del David Tibet più recente. Come ti relazioni con questi mondi espressivi? Quale senti più vicino al tuo?
Stimo moltissimo sia Espers (e amo anche i vari lavori solisti di Helena Espvall) che James Blackshaw per la loro purezza, istintività, voglia di relazionarsi in maniera differente, naturale. James poi, assieme al mai tanto compianto Jack Rose (con il quale sono stato in contatto per un po’), è sicuramente l’erede di Fahey e Basho ma è andato oltre alla lezione impartita dai Maestri: le sue composizioni sono pura Meraviglia. Certamente, mi sento vicino al loro approccio, ma anche a quello di un primo Iron & Wine, alla primissima Marissa Nadler (con la quale ho condiviso il palco anni fa), Larkin Grimm (idem come per Marissa), Sharron Kraus (con la quale sono stato in tour) ma anche ad artisti come Expo ’70, Ben Frost, Ólafur Arnalds. Per quanto riguarda i Current 93: ho proposto ad Andria Degens (in arte Pantaleimon e compagna di David Tibet) di cantare sul brano “Don’t Cry To The Moon” di “The Earth Cries Blood” uscito lo scorso anno, perché amo il suo timbro di voce (un po’ mascolino, forte ma anche angelico allo stesso tempo) e ho apprezzato molto i dischi pubblicati a nome di Pantaleimon, ma posso dirti di non sentire i Current 93 vicini al mio approccio, non rientrano nei miei ascolti, nonostante la Stima Infinta per David Tibet e per tutto quello che ha fatto negli anni.

Proprio seguendo il tuo percorso da “Find A Shelter Along The Path“ (2010) in poi, si direbbe che nei due album successivi abbiano preso il sopravvento nella tua musica componenti più inquiete e oscure. Se questo è vero, ritieni che sia dovuto a una scelta espressiva o al tuo modo di relazionarti con la scrittura musicale?
Non so dirti il motivo per il quale certi umori, come dici tu, abbiano giocato un ruolo importante in “Find A Shelter Along The Path”, “Whispering Tales Under An Emerald Sun” (2011) e in “The Earth Cries Blood” (2013). Tra i miei ascolti non c’è niente di riconducibile al dark (oppure al gothic) e a tutto quello che rappresenta, ma essendo cresciuto anche con dosi massicce di metal nelle sue varie accezioni (metal puro, trash, death, black, grind) può essere che qualcosa di appartenente a questo mondo si sia fatto strada dentro di me negli anni, nonostante mi esprimessi nel linguaggio del folk. Non mi riferisco a chitarre distorte pesantemente né tantomeno a scelte: se è successo, è stato un qualcosa di assolutamente naturale e non cercato.

Hai da poco pubblicato due dischi in parallelo (“Quiet Swamps” e “Hidden Tales And Other Lullabies”), che si differenziano in parte per forma e contenuto: la loro genesi è avvenuta in contemporanea o si è trattato di una coincidenza produttiva?
Parlerei più di coincidenza nell’uscita, perché i due dischi sono stati composti e registrati in tempi e anni diversi. Ho scritto e registrato “Quiet Swamps” tra il 2011 ed il 2014 con chitarre acustiche, chitarre elettriche, pianoforte, piano elettrico, flauto, zither, sintetizzatori, field recordings processati, loop acustici ed elettrici processati e percussioni. “Hidden Tales And Other Lullabies” è stato scritto e composto tra i 2012 e il 2014 e vede al suo interno pianoforte (potrei dire essere l’elemento principale), chitarre elettriche, chitarre acustiche, piano elettrico, sintetizzatori e field recordings processati. Questi due lavori, a mio avviso, si discostano da ciò che ho fatto fino al 2013: i brani hanno una struttura diversa, la forma canzone non è sempre presente (non che anche nel passato l’abbia cercata e voluta a tutti i costi, anzi) e sicuramente il mio folk si presenta essere più rarefatto, evanescente e diversi sono gli episodi interamente strumentali, in entrambi gli album, nei quali sono i sintetizzatori ed il pianoforte a farla da padrone.

Dal tuo profilo espressivo, sembri un artista molto solitario nell’ispirazione e nella scrittura: c’è qualche artista col quale ti piacerebbe collaborare?
In effetti sì. Amo circondarmi dei miei strumenti e comporre preferibilmente immerso nel silenzio. Ci sono diversi artisti con i quali vorrei collaborare e con i quali sono in contatto da anni: ad esempio Sondra Sun-Odeon dei Silver Summit (avrebbe dovuto cantare su di un disco che ho registrato nel 2007, ma che poi ho preferito non pubblicare. Vedremo in proposito, perché i brani mi piacciono comunque molto), Jen Gloeckner (che ha pubblicato uno splendido disco su One Little Indian. Io e Jen siamo in contatto da un po’, sarà il tempo e le circostanze a dire cosa succederà), Marissa Nadler per quella sua voce così toccante e magica, Helena Espvall per il suo incredibile violoncello e Greg Weeks degli Espers magari in veste di produttore. Questi sono i primi a essermi venuti in mente, ma probabilmente ce se sono altri.

I tuoi dischi sembrano il frutto di una peculiare ricerca umana e musicale; tu stesso suoni parecchi strumenti. Quando scrivi sviluppi in contemporanea i due aspetti? E come scegli di volta in volta gli strumenti da utilizzare?
Sicuramente dischi come “Find A Shelter Along The Path” (il racconto di una mia esperienza tra le montagne innevate), “The Earth Cries Blood” (scritto in un momento difficile della mia vita, è il parallelo tra le sofferenze dell’uomo e quelle della Natura) ma, a suo modo, anche il nuovo “Quiet Swamps” mettono a nudo la persona che sono, i sentimenti che provo, le emozioni. Non nascondo che, spesso, dal vivo, non sia facilissimo per me cantare certi brani, proprio perché mi toccano nel profondo…e ogni volta, mi commuovo. Le due cose di cui parli vanno di pari passo in maniera del tutto spontanea: non cerco necessariamente di mettermi a nudo e che questa volontà sia necessariamente supportata dal colore della musica, però ritengo che composizione (con i vari strumenti), vissuto e ricerca personale, nel mio caso, vadano di pari passo.

Quale ruolo rivestono l’elettronica e i field recordings nei tuoi dischi?
Nei due nuovi dischi rivestono un ruolo importante, forse più l’elettronica rispetto ai field recordings. Entrambi i dischi sono stati composti al pianoforte oppure con i sintetizzatori: ho aggiunto le varie chitarre, lo zither, il piano elettrico, il flauto, le percussioni in un secondo momento e stesso dicasi per i field recordings. Il processo di composizione si è svolto in maniera diversa dal passato e credo sia questo che faccia suonare diversamente i nuovi dischi rispetto ai precedenti. Non era mia intenzione “abusare” dell’elettronica, perché la ritengo essere un’operazione vuota e priva di significato. Come sempre, mi sono lasciato guidare dall’istinto, dai ricordi, dal vissuto. Amo l’elettronica resa umana, non fredda e perfetta ed è quello che ho cercato di fare anche nei passaggi più astratti di entrambi i lavori. In “Quiet Swamps” brani come “Land Of Hope” (con i loop processati e le voci calde), “Quiet Swamps” (con le partiture elettroniche e il suo misticismo), “The Owl And The Moon” (con le sue aperture melodiche) ma anche in “Hidden Tales And Other Lullabies” brani come “Poison Tree” (con il suo pianoforte e le chitarre cristalline), “Daughter Of Fortune” (con suo il romanticismo e la sua malinconia), “Going Home In The Middle Of Nowhere” (con il pianoforte e la natura nel finale) confermano quello che sto dicendo sull’elettronica. I field recordings contenuti nei due dischi vanno dalla cattura del suono emesso da bicchieri di cristallo, al suono della carta, al rumore delle foglie, alle conchiglie. Ho processato queste sorgenti di suono, ma senza snaturarle.

Altrettanto curati quanto gli aspetti strumentali sono quelli estetici dei tuoi dischi: cosa pensi delle relazioni della musica con altre forme d’arte e in particolare con quelle visuali?
Il connubio tra contenuti ed estetica è assolutamente importante, proprio perché permette di dare una visione molto più completa di ciò che si sta offrendo. È sempre stata una mia idea e ho sempre amato quei dischi nei quali i due elementi sono legati indissolubilmente ed è una cosa che ho sempre cercato di fare come The Child Of A Creek e che sempre farò, possibilità permettendo. Ad esempio: la copertina di “Find A Shelter Along The Path” è una rielaborazione per mano della mia cara amica ed illustratrice Renée Vugs di una foto da me scattata sulle montagne. La stessa copertina di “The Earth Cries Blood” è una mia foto: una rosa non ancora sbocciata, che messa in relazione ai contenuti del disco, esprime bene l’idea alla base. Ma anche la copertina del nuovo “Quiet Swamps”, un’immagine che ritrae un paesaggio paludoso costellato da montagne, ad opera di Bruno Parisse (di Ruralfaune) che ha percepito ed accolto perfettamente sia i contenuti del disco che i colori in esso contenuti. “Quiet Swamps” offre comunque una doppia copertina: quella ad opera di Bruno e, sul retro della confezione, una foto scattata di mio pugno poi editata, più sperimentale. La copertina di “Hidden Tales and Other Lullabies” è interamente ad opera di Christian Khann (A Beard of Snails/Metaphysical Circuits).

Come descriveresti il significato e la finalità – sia personale che artistica – della tua musica?
Spero e confido che si percepisca, in ciò che faccio, la ricerca di una purezza, di un qualcosa di perduto, di una voglia di umanità ed empatia proprio perché la musica ha il potere e la forza ancestrale di riconciliarti con ricordi, sensazioni, passioni, paure, speranze. Non pretendo che la mia musica abbia tale forza espressiva, ma è comunque qualcosa che cerco a livello artistico e come essere umano.

Quando Lorenzo smette i panni di The Child Of A Creek, quale musica ama in qualità di ascoltatore?
Sicuramente tutti i nomi fatti al’inizio danno calore e riempiono le mie giornate, morirei senza. Quindi il folk ‘60/’70, la psichedelia, il progressive, certa elettronica sperimentale ma anche una musica più pesante. In questi giorni sto ascoltando molto il nuovo disco degli Opeth, “Pale Communion”, che ritengo essere una delle band, artisticamente parlando, più influenti dell’ultimo decennio.

Qual è il tuo rapporto con la dimensione live?
È strano il rapporto che ho con i miei concerti, non so descriverlo esattamente, ma ogni volta è un’esperienza unica e irripetibile, nella quale do tutto me stesso senza risparmiarmi. Mi sono spesso esibito con voce, chitarra acustica ed elettrica, oppure con la sola voce e chitarra acustica e amo entrambe le dimensioni. Per le date in promozione a “Quiet Swamps” e “Hidden Tales And Other Lullabies” mi avvarrò di una strumentazione diversa e il concerto sarà sicuramente più dinamico.

Cosa pensi del mondo musicale italiano attuale (sia dal punto di vista dell’offerta artistica che delle etichette, etc.)?
Devo dirti di non seguire affatto la “scena” italiana se una scena esiste. Ci sono artisti con i quali ho condiviso il palco come Moltheni, Cesare Basile, Xabier Iriondo, Giorgio Canali, The Niro, che stimo per il loro approccio e per ciò che hanno fatto negli anni. Ho grande stima per etichette come Trovarobato, Wallace Records, Boring Machines e per quella miriade di piccole etichette che si sbattono pubblicando materiale di valore.

Infine, cos’altro ci si può aspettare da te in futuro e cosa ti aspetti tu dalla musica?
Uscirà un mio nuovo disco verso aprile 2015, probabilmente sotto diverso moniker, per la diversità della musica contenuta, rispetto a ciò che ho fatto e che faccio come The Child Of A Creek. Sto ultimando assieme al grafico le immagini per il booklet; mi sono affezionato molto a questo disco, del quale non voglio ancora svelare alcun particolare, ma che mi propone in vesti focalizzate su un certo tipo di musica, lontana dal folk in generale. Il disco sarà pubblicato da una label irlandese e sarà distribuito in tutta Europa e negli USA. Poi, come di consueto, sarò in giro per presentarlo. Come The Child Of A Creek, sto lavorando al completamento di due nuovi dischi registrati tra il 2012 e quest’anno, uno dei quali vede la collaborazione di Alison O’Donnell (voce dei Mellow Candle, cult band progressive folk anni ‘70 che ho sempre amato). Alison ha scritto i testi di due brani e li ha cantati splendidamente nonostante non sia più certo una giovane donna. Dalla musica mi aspetto sorprese, coraggio e voglia di fare. Da parte mia ce la metterò tutta, sto già lavorando a cose nuove oltre a quelle di cui ho parlato.

(versione integrale dell’intervista pubblicata su Rockerilla n. 410, ottobre 2014)

Info e contatti: keith78@virgilio.ithttp://www.facebook.com/creek.child

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