LUKE HOWARD – Two & One
(Self Released, 2014)
Tra i molteplici approcci alla “modern classical”, quello del compositore australiano Luke Howard si caratterizza per linguaggio orchestrale e sincretismo con mezzi elettronici. Se lo splendido “Sun, Cloud” dello scorso anno si segnalava per la delicatezza impressionistica delle suggestioni atmosferiche che l’avevano ispirato, “Two & One” risponde da un lato a un codice espressivo più scarno, con il pianoforte spogliato dell’ulteriore impianto cameristico, e dall’altro a una più avanzata ricerca delle possibilità di fusione tra le sue semplici note e modulazioni sintetiche altrettanto essenziali.
Le già evidenti fascinazioni ambientali di Howard trovano manifestazione esterna all’album ma fortemente emblematica, in quello che sembra più di un semplice divertissement, ovvero nelle versioni pubblicate in rete di alcuni suoi brani a velocità tanto rallentata da espanderne la durata a circa un’ora ciascuno e il contenuto a quello di ipnotica consistenza ambientale.
Quanto ciò abbia a che fare con le dieci composizioni di “Two & One” si percepisce soprattutto nelle rarefazioni nebbiose di “Island”, ma anche lungo gran parte dei brani della sua prima parte, che saldano in una coesa materia sonora costituita da pianoforte e schegge elettroniche, sotto forma di screziature brillanti come quelle di “Cibi” – quasi una pièce rinascimentale aggiornata ai mezzi odierni – o di modulazioni sintetiche in guisa di aperture orchestrali, come lungo i sette minuti di “Oculus”, il brano più lungo e complesso del lotto.
Quando invece le partiture pianistiche di Howard si spogliano del pur stimolante contorno, restano insospettabili sfumature jazzy (“Longplay”) e soprattutto l’austera intensità di un romanticismo notturno (“Nocturne”) e ancora improntato a riferimenti atmosferico-ambientali (il binomio finale “North”-“South”), che non ha bisogno di alcun artificio per risultare evocativo ed emozionante.
A “Two & One” manca forse l’ampiezza di respiro e (per deliberata opzione espressiva) la potenza cinematica del predecessore, ciononostante anche nei suoi solchi è ben riconoscibile il tocco delicato di Howard, artista che anche per le sue esperienze pregresse nell’ambito delle colonne sonore e al fianco di artisti europei quali ad esempio Nico Muhly, Ben Frost e Valgeir Sigurðsson, riesce a coniugare matrice classica e mezzi moderni con una personalità decisamente più spiccata rispetto agli ormai sempre più numerosi epigoni del minimalismo pianistico.