MIGALA – Así Duele un Verano
(Acuarela, 1998)
“All this saturday
holy silent and void
wondering what to be.
Give me a fire to burn,
a stair or some little dirt to clean,
cause I’m low of defenses,
smoke with no fire,
and I’m alone.“
Quello di realizzare canzoni dalle atmosfere inusuali può definirsi l’obiettivo principale di ogni artista che voglia fare il proprio ingresso nel mondo discografico cercando di caratterizzare la propria proposta per qualcosa di diverso rispetto al solo timbro vocale, alle storie narrate e al modo di raccontarle attraverso la musica. Sotto la prospettiva offerta dal tempo trascorso, quell’obiettivo appare essere stato alla base di gran parte della sterminata offerta musicale che, sul finire degli anni Novanta, era stata ricompresa sotto la definizione di post-rock, per il semplice fatto che era difficile identificarla in altro modo univoco e rappresentativo della sua tensione a creare qualcosa di semplicemente “altro” rispetto ai canoni fin lì invalsi.
Quell’obiettivo ha rappresentato anche il punto d’approdo al quale tendeva, in maniera esplicita, una band a suo modo “periferica” per origine geografica e collocazione in delimitate scene artistiche e proprio per questo dotata di un’ampiezza di linguaggi espressivi tale che i (non moltissimi) che all’epoca l’avevano scoperta non avevano potuto fare a meno di amarla e custodirne tutt’ora il breve arco creativo come qualcosa di prezioso, dotato di una personalità davvero peculiare.
Erano gli spagnoli Migala, sestetto aperto di volta in volta a ulteriori collaborazioni formatosi nel 1996 intorno al cantante e chitarrista Abel Hernández, che per almeno un decennio costituì fondamentale punto di riferimento per una sorta di collettivo di artisti gravitanti intorno all’etichetta Acuarela, operanti in territorio che andavano dal post-rock “propriamente detto” a un folk obliquo, dai tempi in prevalenza rallentati. Dei cinque album realizzati dai Migala tra 1997 e 2004, “Así Duele un Verano” è forse quello più immaginifico e toccante, ma anche quello che descrive in maniera più esaustiva il loro tentativo “ante litteram” di uscita dal post-rock, perseguito con una naturalezza derivante, appunto, dal semplice desiderio di presentare in maniera inedita le loro canzoni, più spesso afasiche o presentate in forma di spoken word che non propriamente cantate.
Le tredici tracce di “Así Duele un Verano” (1998), che seguivano di due anni il debutto “Diciembre, 3 AM”, offrono infatti una rassegna particolarmente esaustiva della peculiare declinazione da parte della band spagnola di una musica al tempo stesso lenta e di forte impatto emotivo, basata tanto su trame strumentali lucidamente elaborate quanto su un contenuto armonico fluido e persino romantico. I tre quarti d’ora del lavoro disegnano inoltre una sorta di percorso, di progressiva sottrazione di elementi e correlativa apertura a un linguaggio musicale che ricerca nell’immediatezza della primigenia natura folk un’efficacia di impatto emotivo non inferiore a quella conseguibile attraverso segmentazioni di tempi e moderati crescendo.
Nella sua parte iniziale, “Así Duele un Verano” si caratterizza infatti in particolare per ritmiche secche e rallentate, che scandiscono tempi obliqui sulla scia di Codeine e Shipping News (persino degli Slint), già tuttavia ibridati con semplici arragiamenti d’archi o con il suono spettrale del theremin; su questi binari si intreccia il suono denso e riverberato delle chitarre e compaiono i primi frammenti di canzone, che già in “The Whale” convivono con narrazioni in forma di spoken word lontanamente imparentate con quelle dei primi Arab Strap.
L’ambivalenza tra cantato e parlato nelle interpretazioni di Hernández rappresenta una delle cifre espressive del lavoro, elevata a paradigma nello sfolgorante binomio “Low Of Defenses“/”Gurb Song“, due brani in apparenza molto diversi tra loro ma che, insieme, rendono alla perfezione il modo in cui i Migala costruiscono e risolvono una latente tensione emotiva, che non necessita di veri e propri crescendo per risultare avvincente. La prima è praticamente una canzone slow-core, che si struttura pian piano fino all’ingresso della voce di Hernández, che la trasforma in un inno, fortemente sentito eppure pacato, alla solitudine e alla fragilità (il testo integrale è riportato in epigrafe). La seconda è invece come una lunga scena da film, una scena di separazione e d’amore, nella quale si parla di Nick Drake e registratori a cassetta, di Aids e metafore uccelli che volano liberi, che parte dal silenzio assoluto, svolgendosi a sua volta in una sequenza di brevi loop lievemente distorti e stop-and-go ritmici, in una narrazione in qualche misura paragonabile a quelle dei nostri Massimo Volume, peraltro opportunamente incorniciata dallo strumentale “Guetaria“, che riveste la funzione di “titoli di coda” della scena, incastonata dal decadente dialogo tra chitarre e austeri loop d’archi (non è, forse, questo “post-rock orchestrale”?).
Pur senza in alcun modo normalizzare la tavolozza espressiva dei Migala, la seconda parte di “Así Duele un Verano” fa emergere in maniera più evidente il profilo cantautorale di Hernández, il cui crooning dal fascino vagamente fumoso è esaltato da arrangiamenti chamber-folk (violino, ma anche organi e armonica), che fin da “Ancient Glaciar Tounges” echeggiano i Tindersticks dei brani parlati e delle orchestrazioni più intricate. Anche in questi casi, resta sempre latente la vocazione sperimentale della band, dal robusto crescendo elettrico del finale della stessa “Ancient Glaciar Tounges” al curioso spezzone di un servizio giornalistico in italiano sul divorzio, che corre sotto il minuetto sixties di “Akita“.
Sensazioni di ricercatezza retrò (lo stesso folk europeo in seguito indagato da Matt Elliott?) si colgono un po’ in tutta la parte finale del disco, dalla dolente orchestrina che accompagna “Unlost Memory” al pianoforte sbilenco dell’ancor più breve frammento “Dactylographique“. Sopra tutto ciò si staglia tuttavia la scrittura decisa di Hernández, sempre più cantautore dallo spiccato lirismo folk in “Regular Storm Sounds” e soprattutto nella conclusiva “When I Go, I Go“, ballata in media fedeltà nella quale restano soltanto chitarra, voce e qualche effetto d’ambiente a rivelare il cuore più spoglio della poetica dei Migala, quello da cui la band spagnola è partita per pennellare il proprio peculiare affresco di una musica che non conosce vecchio e nuovo, ma si trasforma nella ricerca di nuove strade per un modo antico di fare canzoni, allora come oggi intenso e coinvolgente.