MATT CHRISTENSEN – Honeymoons
(Miasmah, 2016)*
Quando non è impegnato con i suoi Zelienople, Matt Christensen si dedica a un’intensa attività solista, le cui copiose creazioni casalinghe abbracciano ricerca sonora e narcolessie d’autore. Nel caso di “Honeymoons” il chitarrista chicagoano non è limitato a riversarne i frutti in presa diretta sulla rete, bensì li ha raccolti in un album vero e proprio.
I sei brani che lo costituiscono bilanciano i vari aspetti della personalità artistica di Christensen, decantando le linee armoniche di canzoni al rallentatore poco più che biascicate in un ordito di soffici riverberi, sospesi a mezz’aria tra risonanze granulose e silenzi. Benché il profilo latamente “cantautorale” di Christensen non aveva mancato di manifestarsi, a tratti, in alcune delle sue raccolte di brani in formato digitale degli ultimi anni (in particolare “Grown Ups” e “I Can See The Way Down”), “Honeymoons” può considerarsi il primo erede vero e proprio di “A Cradle In The Bowery“ (2011), prima manifestazione organica della sua attitudine a coniugare una scrittura introversa e minimale con la ricerca di ambientazioni soffuse, sottilmente psichedeliche, attraverso le sole timbriche della sua chitarra elettrica.
Tale pratica richiede tempi inevitabilmente dilatati, che espandono le canzoni di “Honeymoons” a sequenze rallentate delle quali le confessioni sottovoce di Christensen costituiscono soltanto uno degli elementi narrativi. A plasmarne i contorni evanescenti è infatti piuttosto un ventaglio di frequenze morbidamente cadenzate e di delay dosati con precisione matematica, condotti ogni volta un passo (un istante) più lontano, come in un viaggio in una dimensione di intimo raccoglimento, le cui confessioni restano tuttavia lievemente sospese, negli ampi spazi vuoti tra un riverbero e una sommessa armonizzazione, tra un’onda sonora e la successiva.
Prendono così forma canzoni scandite da pulsazioni umbratili (a partire dalla title track d’apertura) e ammantate da vapori ipnotici (“The Stage Says No”, “Los Angeles”), espanse in maniera del tutto naturale fino a assumere le sembianze di litanie prolungate (i quasi dieci minuti di “Sometimes”). I sei brani non seguono tuttavia schemi predefiniti, anzi presentano significative variazioni di durata e di frequenze e, almeno in “I’m See Through”, percorse da frammenti sonori e distorsioni in forma libera.
Superata una superficie in apparenza quieta e uniforme, “Honeymoons” si rivela dunque lavoro dalle tante sfaccettature, dai tanti minuti dettagli, che sublima intimismo cantautorale e ovattata ambience chitarristica attraverso visionari torpori slow-core.
*disco della settimana dal 26 settembre al 2 ottobre 2016
finalmente un album palesemente ispirato a pygmalion degli slowdive, ed è pure molto ma molto bello. Complimenti per la scelta.
È un’associazione che non mi è capitato di fare, ma in effetti può starci, eccome, soprattutto per un certo modo di trattare la chitarra. Pygmalion, peraltro, disco di straordinaria modernità!