TRAM – Heavy Black Frame
(Jetset, 1999)
Da qualche parte nel corso dei Novanta, un importante esponente della radiofonia indipendente romana (quando ancora poteva dirsi tale…) coniò la “setta dei rallentatori di mondo”. Erano i tempi delle cadenze smorzate del trip-hop, band in seguito annoverate sotto la definizione di slow-core avevano cominciato i rispettivi diversi percorsi; ma non erano ancora nemmeno del tutto passati i tempi dell’adrenalina grunge o quelli estetizzanti del brit-pop, ovvero di forme espressive in qualche misura travalicanti gli abituali canoni rock ma senz’altro caratterizzate da ritmi incalzanti o comunque da una certa generale vivacità.
Il rallentamento di cadenze era dunque una sorta di risposta minoritaria a una temperie espressiva – e a un mondo musicale e non – che avanzavano ben più velocemente. Tale ideale risposta aveva preso forma soprattutto negli Stati Uniti, trovando nei Codeine, nei Low e, per certi versi, in Smog e negli stessi Red House Painters i propri principali artefici.
L’Europa non era tuttavia da meno, seppure con modalità del tutto peculiari, che combinavano cadenze narcolettiche con diverse modalità di scrittura ed esecuzione. Così, più o meno in contemporanea con le ruvide confessioni casalinghe degli Arab Strap, una piccola (e quasi dimenticata) band inglese elaborava una propria soffusa formula di cantautorato da camer(ett)a, a base interamente acustica. Erano Tram, quintetto londinese formatosi alla timida scrittura e alle soffici interpretazioni sottovoce di Paul Anderson e alle distillante cadenze di Nick Avery, che ha vissuto una breve stagione di tre dischi a cavallo del Duemila e il cui debutto sulla lunga distanza, seguito a un paio di singoli, aveva assunto nel 1999 la forma di “Heavy Black Frame”.
L’album raccoglie dieci tracce che rispecchiano la quintessenza di quanto ci si potrebbe attendere da un disco slow-core filtrato attraverso l’eleganza decadente di uggiose atmosfere tipicamente inglesi. Il mood è evidente fin dai primi secondi dell’iniziale “Nothing Left To Say“, le cui iterative emissioni d’organo descrivono immediatamente ambientazioni soffusamente malinconiche, scandite da percussioni indolenti, incorniciano il cantato intimista di Anderson. A partire da tale abbrivio, il disco avanza come sospinto da una torpida risacca emozionale, che pur non mancando di riflessi di psichedelia delicatamente sognanti (“Too Scared To Sleep“, in odor di Mazzy Star), si attesta sul paradigma di un intimismo mai ostentato, bensì spontanea manifestazione di una poetica dal’attitudine dimessa e di un pathos quasi sempre contenuto.
I languori chitarristici e le avvolgenti risonanze d’organo definiscono una sequenza di ballate al rallentatore (“Home“, “I’ve Been Here Once Before“) costruite su riflessive filigrane armoniche che non mancano di esaltarsi nella loro dimensione strumentale (“Like Clockwork” e “You Can Go Now (If You Want)”, ma anche l’umbratile confessione “Reason Why”), arricchita in un paio d’occasioni dall’elemento caratterizzante dell’oboe di Thibault De Montford. Ad accezione del breve finale in crescendo della sola “High Ground“, i brani di “Heavy Black Frame” vivono di una pathos lieve e quasi mai liberato, espressione pienamente connaturata a una sensibilità con la quale potranno in seguito rilevarsi affinità con artisti quali Barzin e i Savoy Grand.
Non solo agli estimatori di altre analoghe proposte di sommesso intimismo slow-sad-core può tuttavia essere congeniale la (ri)scoperta del debutto dei Tram, piccolo grande saggio di rallentamento di un mondo artistico che (forse) non c’è più, eppure resta vivido e presente non solo nei ricordi di chi l’ha amato all’epoca, ma anche sotto forma dei tanti diversi rivoli che costituiscono l’attuale panorama della manifestazione intimista di una compassata vena d’autore.