memories: THE BEAST INSIDE

INSPIRAL CARPETS – The Beast Inside
(Mute, 1991)

Nell’incredibile stagione di rinnovamento del pop alternativo britannico all’inizio degli anni Novanta – quella che da lì a breve sarebbe stata identificata con la scena di “Madchester” – non mancava la varietà delle personalità artistiche che ne erano protagoniste, né quella dei possibili riferimenti da rinfrescare in una giovanile chiave pop-rock. Almeno così all’epoca raccontavano quella temperie espressiva riviste specializzate e operatori della diffusione musicale, per cui, agli occhi di un giovane appassionato che ne seguiva gli echi dal periferico contesto italiano si formavano, tra le altre, le immagini dei psichedelici Charlatans, dei carismatici Stone Roses e degli scanzonati Happy Mondays.

Profilo diverso, ed estremamente ambizioso, caratterizzava invece gli Inspiral Carpets, soprattutto se dapprima scoperti all’altezza del loro secondo album, che pure seguiva di appena un anno il fortunato debutto “Life” (1990), che era loro valso posizioni altissime nelle classifiche di vendita e travolgenti prove dal vivo nell’annuale festival di Reading. Quasi come risposta al successo, la band originaria della conurbazione di Manchester (per l’esattezza di Oldham) abbandona nel suo seguito la brillante formula che aveva portato a popsong indimenticabili, in favore di qualcosa di più impegnativo, vario e complesso, a cominciare dalla durata dei brani.

Capita così che l’approccio con la band guidata da Tom Hingley ne ricavi sensazioni cupe e misteriose, corrispondenti all’immagine di copertina e alle prevalenti atmosfere di “The Beast Inside”, album che – col senno di poi – rappresenterà invece una parziale deviazione nel percorso di una band invece a pieno titolo annoverabile tra gli alfieri del “Madchester sound”, soltanto nell’occasione molto più riflessiva e rigorosa rispetto alle proprie vesti pop, manifestatesi in maniera eccelsa tanto nel predecessore “Life” quanto nell’album immediatamente successivo, “Revenge Of The Goldfish” (1992). Nel breve intervallo tra i due, si colloca appunto “The Beast Inside”, lavoro tutt’altro che leggero, benché comunque non alieno dalla scorrevole vena melodica della band, che torna subito a manifestarsi nelle danzanti tastiere dell’iniziale “Caravan” e di “Mermaid”; gli incalzanti vortici di quest’ultima fanno da immediato contrappunto al passaggio più evocativo e atmosferico del lavoro, la splendida “Niagara” sulla quale la voce di Hingley declama versi di estatica malinconia, tuffandosi in correnti di sorprendente naturalismo ambientale, che torneranno in afasica purezza nel conclusivo strumentale “Dreams Are All We Have”.

Tra tali estremi si ritrova tutta la carica degli Inspiral Carpets, convogliata in prevalenza in amare constatazioni sulla natura umana (“Born Yesterday”), appena rischiarate dalla scorrevolezza delle melodie (“Grip”, “Please Be Cruel”) e dinamiche connesse con la wave e con certo rock psichedelico del decennio precedente (“Sleep Well Tonight”), tanto per le timbriche di chitarre e ritmiche quanto soprattutto per i ricorrenti inserti d’organo. Sono comunque la travolgente title track, con le sue chitarre circolari e l’ossessivo ritornello “a man is no man if he doesn’t have the beast inside”, e i tredici minuti di ripidi dislivelli emotivi della ieratica “Further Away” a segnare in maniera indelebile – insieme a “Niagara” – l’essenza del disco. Forse proprio per il suo rappresentare una deviazione da un percorso appena intrapreso e già tributato di buon successo, “The Beast Inside” riesce ancora a sorprendere per la sua intersezione di linguaggi sonori ed espressivi, nella stessa misura in cui istinti diversi convivono nella complessità di animi umani attraversati da inquietudini che, ora come allora, travalicano i contesti temporali.

http://www.inspiralcarpets.com/

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