ALAMEDA – Procession
(False Migration, 2012)
Ancora pregevoli sensazioni folk dall’inesauribile fucina di Portland: questa volta è il turno del quintetto Alameda, originariamente formatosi intorno al songwriter Stirling Myles e alla cantante e violoncellista Jessie Dettwiler, entrambi peraltro reduci da una precedente esperienza post-rock. Nonostante la netta transizione d’ambito, le ascendenze del nucleo fondante della band hanno lasciato un’eredità riconoscibile nel romanticismo degli arrangiamenti d’archi che completano le fragili armonie di Dettwiler, artefice di canzoni semplici, dal delicato intimismo.
La formula, già collaudata lo scorso anno nel debutto “Seasons/Spectres”, consegue nei nove brani di “Procession” un equilibrato stadio di maturazione musicale e anche umana, essendo incentrato su una serie di riflessioni su spazio, dialogo e comunità, a quanto pare ispirate a Dettwiler da un percorso di meditazione buddista.
Quale che ne sia stata la genesi, le nuove canzoni disegnano sfumati acquarelli chamber-folk, contemplando esili melodie acustiche con la distante malinconia del violino e con il pianoforte a fornire briosi impulsi ritmici (l’iniziale “Colfax”). Anche laddove ricorrono elementi di coralità, nel modo di cantare e nell’impianto strumentale (“Swollen Light”), o andature più vivaci (“Limbs Of Youth”), la musica degli Alameda permane sempre sottilmente nostalgica, fino a sfociare in profluvi d’archi romantici (“Low Oriole”) o in sospesi tappeti dai soffusi contorni ambientali (l’incipit di “Portrait #1: To The Knives”).
Così, mentre gli episodi più orientati al folk possono suscitare analogie con una versione meno impressionistica del recente canzoniere di Justin Ringle, dalle talvolta intricate trame degli arrangiamenti affiorano reminiscenze degli Halifax Pier, non a caso band il cui breve percorso traeva origine dal post-rock cameristico per poi svilupparsi nella direzione di leggiadre melodie folk.
Quali che possano essere i possibili collegamenti, nella sua concisione di poco oltre mezz’ora di durata, “Procession” si rivela con discrezione uno scrigno contenente tante piccole gemme chamber-folk, dalle sfumature diverse ma tutte pennellate da limpide orchestrazioni, che esaltano la scrittura misurata di Jessie Dettwiler, autore da tenere nella massima considerazione pur all’interno della sterminata offerta alt-folk proveniente dagli Stati Uniti, e da Portland in particolare.
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