THE CLOISTERS – The Cloisters
(Second Language, 2012)
Nell’ultima delle sue molteplici incarnazioni artistiche, Michael Tanner si è prefisso l’ambizioso tentativo di sostituire le spettrali trame elettroniche sottostanti alla sua principale esperienza di Plinth con un impianto strumentale che ne accentui gli aspetti più classici – quelli ad esempio evidenziati in “Music For Smalls Lighthouse” – pur mantenendone inalterato il potenziale profondamente evocativo.
A tale finalità risponde dunque la costituzione di The Cloisters, ensemble che vede il ricercatore di suoni inglese accanto all’arpista Áine O’Dwyer (già sua sodale in United Bible Studies) , all’armonium di Hanna Tuulikki e a una sezione d’archi formata dal violoncello di Aaron Martin e dalla viola di Daniel Merritt (Dead Rat Orchestra).
Dopo un assaggio sotto forma di Ep nel 2011, il disco di debutto della nuova band, racchiuso in una confezione cartonata a soffietto e pubblicato in cinquecento copie dalla Second Language, restituisce appieno le suggestioni misteriose connaturate alla musica di Tanner, in quattro tracce delle quali due dalla durata superiore al quarto d’ora e due più concisi sketch.
“Riverchrist”, monolite di diciassette minuti collocato in apertura dell’album, ne chiarisce già a sufficienza il mood umbratile e le atmosfere stranianti, adesso conseguite attraverso prolungati vibrati di archi e tessiture di armonium, di tutta evidenza lo strumento deputato a conferire omogeneità alle composizioni, supplendo all’assenza di filtraggi elettronici. Eppure, il risultato complessivo appare talmente austero e ipnotico da far correre il pensiero ai passaggi più spogli degli Stars Of The Lid, tanto esili risultano gli uniformi soffi armonici del brano, che solo intorno ai due terzi della sua durata viene moderatamente scosso dalle pulsazioni di un dulcimer, che aggiunge inquietudine alle tenebre imperscrutabili già dipinte dagli archi.
Mentre le due pièce più brevi evidenziano una maggiore coralità di elementi (nell’interludio “The Lock Keeper” accanto al pianoforte riaffiorano persino frammenti elettronici), al centro dei quali si staglia l’arpa della O’Dwyer, il quarto d’ora “Freohyll Nocturne / Hymn” vede tornare protagoniste austere espansioni temporali di viola e violoncello. In questo caso, però, il piglio complessivo risulta più lieve, completato anche dai sentori bucolici apportati da versi di uccelli che percorrono quasi tutta la durata della traccia, fino a sfociare in un solenne crescendo armonico, non privo di un certo respiro emozionale.
I sei brani del bonus disc “Little Summer / Little Winter” completano il lavoro, doppiandone quasi la durata e fungendo da tavolozze sonore dalle quali Tanner e soci hanno poi attinto per le più coese composizioni dell’album vero e proprio.
Entrambe le parti di questo debutto tanto difficile quanto prezioso manifestano tuttavia adeguatamente le varie sfaccettature di un gruppo di musicisti dalle estrazioni parzialmente diverse, impegnatisi con successo nella creazione di un amalgama sonoro che trasfigura arcani retaggi di folk inglese in sinfonie da camera impalpabili come ombre, suggestive come lo smarrimento in un tempo astratto.