HOOD – Rustic Houses Forlorn Valleys
(Domino, 1998)
C’è qualcosa in “Rustic Houses Forlorn Valleys”, fin dai colori della copertina e nel modo in cui certi arpeggi di chitarra risuonano in un’aria pura e sottile, che richiama in maniera inequivocabile l’autunno e anzi lo materializza in sensazioni tanto tangibili da risultare quasi fisicamente percepibili.
È un fenomeno che si verifica puntualmente ad ogni albore d’autunno dal 1998, anno nel quale una band proveniente dai sobborghi di Leeds, guidata dai fratelli Chris e Richard Adams e già attiva da qualche anno con un’embrionale ed obliqua formula noise lo-fi, imprime una svolta decisiva alla propria parabola artistica. Per i loro Hood la svolta è duplice, con il passaggio a un’etichetta di prim’ordine quale Domino e l’incontro con Matt Elliott, all’epoca ancora impegnato nelle destrutturazioni di Third Eye Foundation e coinvolto a pieno titolo nella produzione e nella stessa registrazione del disco, svoltasi nella sua Bristol.
“Rustic Houses Forlorn Valleys” capovolge la consuetudine di venti e oltre brevi tracce di tutti i precedenti lavori degli Hood, presentando soli sei brani, quasi tutti lunghi e articolati. A mutare è anche l’immaginario di riferimento, che trasferisce lo spleen metropolitano nell’isolazionismo della countryside, attraverso la dichiarata immersione in un “mondo dimenticato” nel quale “abbandonare i sogni” contemplando il cielo, come recitano alcuni passi del testo dell’iniziale “S.E. Rain Patterns“. È questo un vero e proprio brano-manifesto dei “nuovi” Hood, con i suoi quasi dieci minuti sospesi tra ambience sinistra, iterazioni di brevi loop chitarristici, in un crescendo graduale che implode in accordi più marcati, solcati dalla sofferente nostalgia del pianoforte di Elliott e del clarino di John Clyde-Evans.
In questo come nei due brani successivi si incontrano i fantasmi bucolici dei Talk Talk e quelli metropolitani dei Bark Psychosis, in una galleria di loop elettronici e field recordings interpolati con delicatezze acustiche e ritmiche ovattate, che disegnano forme asciutte e stranianti di languide narcolessie trip-hop in “The Light Reveals The Place” e in “Boer Farmstead“, quest’ultima caratterizzata anche dal cantato ipnotico di Nicola Hodgkinson, (”Feelings lost in the sky…”). Senza rinunciare all’impatto abrasivo di distorsioni chitarristiche in progressioni o inserti repentini è l’ampiezza di atmosfere pregne di rugiadosa malinconia a intridere l’essenza di brani che con incedere cinematico pennellano ampi piani sequenza che abbracciano desolati paesaggi rurali sotto i riflessi prodotti dal calore di una luce obliqua su nuvole in graduale addensamento.
Esempio emblematico ne è “Your Ambient Voice”, un affresco che si compone in via incrementale lungo i suoi sette minuti tra ambience nebbiosa e nastri riverberati, dolci stille chitarristiche e una melodia sempre più definita che prelude a un’impennata che del post-rock in quegli anni in nuce rispecchia alla lontana l’andamento emotivo piuttosto che seguirne lo schema compositivo. In linea di massima, la seconda metà del lavoro risulta maggiormente movimentata, presentando una più netta prevalenza delle chitarre, in forma di distorsioni anche piuttosto copiose, che sostengono schegge di “canzoni” dalle melodie spettrali, come quella “The Leaves Grow Old And Fall And Die” completata dall’austera alternanza di cantato e parlato di Chris Adams. Il finale di “Diesel Pioneers“, rispecchia poi integralmente lo spirito del lavoro così come esposto nel brano iniziale, in un nuovo maestoso riassunto di tredici minuti lungo i quali si susseguono rarefazioni paesaggistiche, agrodolce indolenza vocale e una bruciante decostruzione rumorista, che lascia riaffiorare le radici post-punk della band. Non è tuttavia l’esito finale del brano (e dell’album), i cui due minuti finali ripiegano infatti su una sorta di reprise dei languidi arpeggi risuonanti in un’atmosfera pullulante di dense saturazioni.
Sono proprio queste a suggellare in maniera inequivocabile l’impronta di “Rustic Houses Forlorn Valleys” quale sintesi coinvolgente e lucidussima di un “rustic folk” decantato attraverso una sensibilità post-moderna e aperta a una sorprendente pluralità di linguaggi, che nel volgere di pochi anni includerà persino quelli urbani dell’hip hop in “Cold House”, album non meno splendido e significativo ma più fortunato dal punto di vista della considerazione critica. Poiché però, almeno su queste pagine, la musica non è scienza ma emozione pura e disinteressata, le palpitanti cartoline dalla countryside di “Rustic Houses Forlorn Valleys” non smarriscono i propri contorni affascinanti col passare del tempo, ma anzi rinnovano ogni volta, trasformandola mirabilmente in suono, la magia della transizione stagionale, rivestita dei colori, della luce e della combinazione di sensazioni romantiche e malinconiche di un autunno che dall’atmosfera si insinua nei luoghi e nell’anima.