DAN MICHAELSON: il lessico della malinconia
Reduce dal secondo album pubblicato a proprio nome, lo splendido “First Light“, Dan Michaelson ha di fatto portato a provvisoria conclusione una parabola artistica cominciata nei primi anni Duemila negli Absentee e finora caratterizzata dalla progressiva sottrazione di volumi e impostazioni indie-rock, alla ricerca di una dimensione intima e profondamente umana.
Dopo aver militato in varie band giovanili, la storia di Michaelson comincia di ritorno da un soggiorno di alcuni mesi in Islanda, terra di ispirazione musicale per eccellenza, dal quale trae la decisione di cominciare a cantare le proprie canzoni: “gli Absentee nacquero come una reazione – e in qualche misura una risposta – britannica a band e artisti statunitensi quali Pavement, Silver Jews, Bonnie Prince Billy e Smog“. Quell’esperienza durò lo spazio di cinque anni e tre dischi, fino a quando alcuni dei musicisti formarono i Wet Paint e Michaelson fece un passo in avanti nella ricerca di una sua voce autentica con i Coastguards, band fortemente incentrata sulla sua personalità, sulle sue canzoni intrise di malinconia e sul suo timbro baritonale.
Il pur non radicale mutamento di paradigma fu subito evidente con il primo album con la nuova band, “Saltwater” (2009), che lasciava già intravedere spunti di una malinconia matura e raffinata, messa a nudo da un romanticismo che cominciava ad abbandonare un’impostazione indie-rock in favore di accurate soluzioni d’arrangiamento popolate da fiati e sinuose cadenze jazzy. Quello spontaneo senso di agrodolce malinconia, distillata dal trascorrere del tempo, ha impregnato di sé gran parte della successiva produzione dell’artista inglese, che non ha difficoltà ad ammettere che “il lessico della malinconia è senz’altro più complesso e sofisticato, perché a differenza della gioia, che non necessita particolari spiegazioni, impone di immergersi nel sentimento per poterlo dissezionare e descrivere in modo tale da poterlo comunicare ad altre persone“.
Non a caso, dopo l’immediato secondo album “Shakes” (2010), proprio a temi e atmosfere di malinconica introspezione è dedicata la trilogia di lavori con i Coastguards pubblicati nel triennio tra il 2013 e il 2016, in un crescendo di consapevolezza individuale e d’artista che consacrano Michaelson in espressivo crooner dallo spirito pacato e dalla classe limpida come un cristallo oscuro. “Blindspot“, “Distance” e “Memory” non sono infatti accomunati soltanto dalla desolata estetica in bianco e nero delle loro copertine, ma trovano “un comune denominatore nel fatto che si muovono attraverso il medesimo paesaggio, secondo itinerari che permettono di coglierne ogni volta aspetti diversi. Come in diversi momenti un luogo può modificarsi o assumere una varietà di luci e colori, così quei dischi sono stato il frutto di molteplici ritorni ai medesimi temi e sensazioni per poterne valutare i mutamenti intercorsi prima di affrontare ulteriori percorsi”. Conclusa la trilogia con il nostalgico sguardo rivolto al passato e con le romantiche soluzioni orchestrali di “Memory” (2016), la tappa successiva di Michaelson ne segue idealmente la scia, sviluppandone in piena autonomia creativa i principali caratteri: da un lato, l’artista inglese comincia a dar forma al suo interesse per l’associazione della musica ad altre forme d’arte, scrivendo pièce strumentali ispirate da libri e una vera e propria colonna sonora per un documentario di prossima uscita, dall’altro proseguendo in maniera solista la definizione della propria fisionomia espressiva.
“Mi piace lavorare con altri musicisti – racconta – ma a volte avverto il bisogno di rimuovere qualsiasi filtro tra me e la registrazione, che mi consenta di trovare un equilibrio e mantenere la connessione tra me stesso e le mie canzoni“. Così, sei anni dopo la prima divagazione a proprio nome (“Sudden Fiction”, 2011), lo scorso dicembre Dan Michaelson ha pubblicato quello che può considerarsi a tutti gli effetti un suo album autenticamente solista, per modalità di scrittura e di realizzazione: “la scelta di realizzare un album solista è stata una questione di tempo, è capitata nel momento giusto e non ho fatto altro che darvi seguito. Il modo in cui le canzoni hanno preso forma non si è discostato da quello abituale: mi piace sedermi e cominciare a canticchiare, fino a quando le parole prendono forma da sole, senza forzarle consapevolmente“. A questo processo, per “First Light” si è aggiunto un elemento ulteriore, ovvero il deliberato esercizio creativo da parte di Michaelson di provare a imprimere in canzoni le sensazioni delle prime luci dell’alba, quelle di un risveglio nel quale il mondo esterno non è ancora a fuoco e quindi in maniera più istintiva sgorgano sensazioni e ricordi: ero alla ricerca di un senso di incoscienza, senza ricercare di scrivere intorno a idee predeterminate, ma semplicemente seguendo un flusso di parole che prendesse forma in maniera naturale.
Le nove canzoni che ne sono risultate, arricchite dagli arrangiamenti orchestrali di Arnulf Lindner (otto violini, quattro viole, due violoncelli, due contrabbassi e occasionali inserti di trombone), esaltano il vellutato crooning del songwriter inglese, che distilla racconti densi di agrodolci memorie sentimentali e di occasioni smarrite, pur filtrate da un inedito sguardo ottimista. “First Light” rappresenta il coronamento matura consapevolezza dell’uomo e dell’artista, sintetizzato in canzoni di intensità, eleganza e schiettezza straordinarie, che ne rispecchiano alla perfezione la filosofia. “Le canzoni possiedono sempre soltanto un seme di verità o esperienza, intorno al quale si costruisce una storia. Se rispecchiassero in tutto e per tutto la verità sarebbero come un diario, e non vorrei che nessuno leggesse il mio diario“. Proprio per questo, scrivere canzoni per Dan Michaelson continua ad avere un senso, nonostante l’enorme mole di musica oggi in circolazione: “è essenziale per coloro che sentono il bisogno di farlo, è come urlare “ciao” in un lungo tunnel buio e aspettare che ci sia qualcuno a rispondere“.
(pubblicato su Rockerilla n. 450, febbraio 2018 – foto: Giovanna Ferin)