Nata negli Stati Uniti, ma cresciuta e artisticamente maturata in Gran Bretagna, Sharron Kraus è una figura rappresentativa come poche altre della complessità che si cela dietro alle infinite declinazioni applicate al termine “folk” negli ultimi due decenni. Interprete dal fascino enigmatico e instancabile esploratrice di nuovi mondi sonori, attraverso la sua discografia di album solisti e numerose collaborazioni ricerca storie e racconta luoghi ma – come nel recente “Joy’s Reflection Is Sorrow” – soprattutto se stessa.
È quanto meno riduttivo riassumere il profilo artistico di Sharron Kraus nella definizione di semplice folksinger. Non solo in quanto nei suoi sette album e nelle numerose collaborazioni ha dimostrato una incessante tensione al bilanciamento tra tradizione e sperimentazione, ma anche perché la sua stessa biografia personale e creativa abbraccia entrambe le ideali “correnti” di quella riscoperta del folk manifestatasi, con modalità diverse, su entrambe le sponde dell’Atlantico più o meno all’inizio del secolo. “Ho cominciato a suonare – racconta – durante il mio periodo universitario a Oxford, dopo aver finito gli studi mi sono trasferita nel Nord della California, dove ho scritto le mie prime canzoni, poi racchiuse nel primo album “Beautiful Twisted” (2002). A quel tempo non conoscevo la definizione di “psych-folk”, ma apprezzavo band come Fairport Convention e Pentangle, e in particolare interpreti quali Sandy Denny, Maddy Prior e Joni Mitchell”. La pubblicazione del disco da parte dell’etichetta australiana Camera Obscura permette a Sharron di affiancare The Iditarod in un tour nordamericano, nel corso del quale incontra musicisti quali Fursaxa, Jack Rose e gli Espers; per associazione in particolare a questi ultimi, il termine “psych-folk” viene accostato anche alla sua musica.
L’attenzione riservata in quegli anni alla musica folk e alle sue variegate contaminazioni si proietta in parte anche su Sharron Kraus, che intraprende un percorso ellittico tra lavori solisti e collaborazioni in chiave maggiormente sperimentale con (Helena Espvall, Meg Baird, Christian Kiefer, Michael Tanner), giungendo persino a pubblicare un album sulla Durtro Jnana di David Tibet (“The Fox’s Wedding”, 2008). È la stessa naturale duttilità del folk a darle modo di spaziare tra diversi accostamenti stilistici, “rendendo gli aspetti creativi molto interessanti; si tratta di qualcosa di molto diverso rispetto ai trend che portano artisti mainstream a registrare brani a bella posta essenziali ed acustici, che suonano sì “folky”, ma non per ciò stesso acquisiscono autenticità, anzi risultano alquanto noiosi”. Sharron Kraus persegue invece tutt’altri percorsi creativi, avvicinando i caratteri naturalmente evocativi della sua musica alla ricerca di luoghi e atmosfere da restituire attraverso i propri brani. Non si tratta di semplici suggestioni astratte, bensì di un percorso di compenetrazione sempre più spiccato con contesti atmosferici (“The Woody Nightshade”, 2010) e soprattutto con luoghi reconditi del paesaggio britannico e con i racconti antichi e misteriosi che recano con sé, che genera dischi dal fascino arcano e dalle atmosfere vaporose quali “In The Rheidol Valley” (2011, con Michael Tanner) e “Pilgrim Chants & Pastoral Trails” (2013). “Vi sono luoghi che mi ispirano a creare musica – spiega – e mi piace utilizzare la musica come filtro attraverso il quale rendere immagini del paesaggio o realizzare veri e propri ‘soundscapes’. Lo spazio rappresenta una componente fondamentale della mia musica; quando suono, per me è essenziale trovarmi in luoghi dotati di una buona acustica e con persone con le quali mi sento completamente a mio agio, perché ciò mi consente di fare musica al meglio“.
La sensibilità dell’artista non è tuttavia rivolta soltanto verso l’esterno, verso luoghi più o meno lontani e sensazioni di un folk incantato, fuori dal tempo. Anche quando muovono da punti di partenza remoti, le sue canzoni parlano di lei, seppure in maniera assai peculiare: “quando scrivo, non sento affatto la necessità di nascondere i miei sentimenti, tuttavia non ritengo per ciò stesso appassionanti le canzoni incentrate sui soli sentimenti dell’artista. Se invece questi sono raccontati in maniera che altri possano relazionarvici, o come parte di qualche disegno più complesso, il risultato è senz’altro più interessante. Il modo in cui il mondo naturale incide su di noi e quello in cui noi ci identifichiamo con la natura costituiscono temi per me oggetto di continua esplorazione, così come la possibilità di trovare paralleli tra le cose che accadono nelle nostre vite e quelle raccontate da miti e storie popolari. Scrivere canzoni, per me, rappresenta uno strumento per comprendere quello che sta succedendo nella mia vita, per questo lo metto in pratica stabilendo connessioni dei miei sentimenti ed esperienze con elementi tratti dal mondo in senso ampio“.
Eppure, mai come in “Joy’s Reflecion Is Sorrow” il suo songwriting è stato dedicato a tematiche personali, benché dischiuse a un respiro universale: “negli ultimi anni si sono addensate nubi oscure sul paesaggio politico; nello stesso periodo ho sofferto delle perdite personali, tra le quali la morte di mio padre. Ho scritto le canzoni per questo disco come un tentativo di dimostrare a me stessa che in mezzo a tutte queste tenebre possa trovarsi una luce. La scomparsa di una persona cara è un’esperienza intensamente personale, ma al tempo stesso universale. Per elaborare il lutto per mio padre è stato fondamentale trovare un modo per bandire la cupezza, perché lo ricordo come una persona estremamente gioiosa. Allora ho rifiutato l’idea che la Morte vincesse, scrivendo che è possibile fin tanto che siamo in grado di mantener vivo l’amore e il ricordo. Allo stesso modo, rispetto alle tenebre del mondo, ho voluto scrivere di cose che mi permettono di tener viva la speranza“.
A un approccio alla scrittura così lucidamente personale, Sharron Kraus è pervenuta ad esito di un percorso evolutosi nel corso degli anni in maniera tale da contemperare in equilibrio gli elementi cantautorali e quelli di sperimentazione sonora. “La ragione della compresenza di entrambi gli elementi nella mia musica corrisponde al fatto che una delle mie principali finalità creative è quella di aprire nuovi mondi a chi la ascolta, rendendola una porta d’accesso a una sorta di realtà magica. A volte mi sento di riuscirci al meglio attraverso l’esatta rivisitazione di una tradizionale “murder ballad”, mentre altre attraverso stratificate pièce strumentali incentrate su drone oppure su qualcosa che le combini entrambe. Di recente, la mia tavolozza sonora si sta orientando verso una direzione maggiormente elettrica e meno essenziale, perché le mie canzoni sembrano avere bisogno di questi elementi per prendere forma. Col tempo, il mio songwriting si è infatti sicuramente trasformato e ritengo che sia diventato più compiuto, inoltre il fatto stesso di scrivere canzoni per progetti di natura diversa mi ha portato a sviluppare approcci e attitudini di scrittura diverse“. Benché la sua musica riecheggi sovente sentori antichi, ogni sua opera è frutto di uno sguardo rivolto in avanti: “non smetto mai di cercare nuovi modi di lavorare e se comincio a sentire il rischio di ricadere nell’abitudine, mi impegno a fare le cose in maniera differente. Nella maggior parte dei miei dischi ho impiegato la chitarra con accordature non ortodosse, in modo da ricavarne suoni abbastanza discordanti. In “Joy’s Reflection Is Sorrow”, invece ho deciso di sfidare me stessa a utilizzare un’accordatura standard, che mi ha portato a concentrarmi maggiormente sulla melodia, e al contempo ho cercato di scrivere più canzoni dotate di ritornelli, che per me sono abbastanza insolite. Per questo non ho idea di che tipo di canzoni scriverò la prossima volta!”
(pubblicato su Rockerilla n. 457, settembre 2018)