BVDUB & LOSCIL – Erebus
(Glacial Movements, 2013)
In sette anni di attività, Glacial Movements ha pubblicato numerosi validi lavori di isolazionismo ambientale. Non sembri dunque fare un torto a nessuna delle sue produzioni individuare in “The Art Of Dying Alone” di Bvdub un passaggio decisivo nel suo catalogo, visto che non solo quell’album ha segnato il primo stadio di (relativo) “scongelamento” dell’originaria estetica dark-ambient ma ha anche contribuito ad ampliare il roster dell’etichetta guidata da Alessandro Tedeschi ad artisti di prim’ordine tra quelli impegnati in sperimentazioni elettroniche.
Assume pertanto un significato particolare il secondo ritorno su Glacial Movements di Brock Van Wey (artefice nel frattempo di una rilettura del “Mørketid” dello stesso Tedeschi), tanto più in un’inedita e intrigante collaborazione con un altro gigante della musica ambientale dell’ultimo decennio, quello Scott Morgan a sua volta già contributore dell’etichetta romana ai tempi delle esplorazioni naturalistiche di “coast/range/arc”.
Ma non è certo solo la statura dei due artisti a rendere densa di significati la pubblicazione di “Erebus”, lavoro frutto di una profonda integrazione tra i suoi protagonisti, testimoniata innanzitutto dal fatto che il risultato si discosta da una mera sommatoria tra i rispettivi stili, bensì produce una terza autonoma dimensione espressiva nella quale permangono tuttavia percepibili alcuni caratteri distintivi. In coerenza con l’immaginario evocato dal titolo (Erebus è un’imponente vetta vulcanica antartica), il lavoro avanza con le movenze di un incandescente flusso magmatico sovrastato da spesse coltri ghiacciate, in un ininterrotto processo di combinazione e “infiltrazione sonora” che stabilisce un equilibrio di volta in volta diverso tra ghiaccio e fuoco, tra sublimazioni ambientali e spesse distorsioni.
I cinque lunghi brani che compongono l’opera presentano comunque un comune denominatore, individuabile nelle profonde saturazioni frutto delle modulazioni di densità che rimandano ai tratti più impervi dei profili espressivi di Van Wey e Morgan. Si passa così dalla vaporosa maestosità dell’apertura “Aether” alle incrementali derive rumoriste di “Hespiredes” per giungere agli allucinati scorci doom-ambient che popolano i ventiquattro minuti del monolite “Hypnos”, monumentale centro gravitazionale di un disco grondante scenari claustrofobici e paesaggi estremamente inospitali. L’esplorazione delle viscere più spaventose della terra che si rivolge sotto la coltre gelata, dopo la relativa pausa di vapori sulfurei di “Moirai”, culmina col calore bianco sciabordante di “Thanatos”, il pezzo più breve del lavoro, che conduce a tal punto l’esplorazione tenebrosa di Van Wey e Morgan da avvicinare ambienti incandescenti, popolati da voci dall’aldilà.
I quasi ottanta minuti di durata di “Erebus” appaiono così un vero e proprio “viaggio al centro della terra”, tanto faticoso quanto intriso di fascino inquieto, attraverso il quale l’incontro di Van Wey e Morgan sotto spoglie parzialmente diverse riassume la polivalente accezione del termine “agghiacciante”.