MARSEN JULES – Beautyfear
(Oktaf, 2014)
Dall’esplorazione degli imperscrutabili paesaggi della memoria all’osservazione di panorami reali resi altrettanto densi dai tepori primaverili dell’Europa meridionale, Martin Juhls torna a sviluppare un album organico dopo aver trascorso i tre anni dal precedente “Nostalgia” dedicandosi senza soluzione di continuità ai paralleli progetti del Trio e di krill.minima, nonché a tracce sparse e sperimentazioni di lunga durata quale quella da ultimo rifusa nel recente “The Endless Change Of Colours”.
Come segna una parziale cesura dal punto di vista delle suggestioni concettuali dell’artista tedesco, così “Beautyfear” – realizzato nel corso di una settimana di soggiorno a Lisbona – ne dischiude un nuovo capitolo della ricerca sonora, che sul comune denominatore di una rigorosa evocazione emozionale a base di loop e modulazioni di fonti elettro-acustiche innesta un universo di frequenze minimali, sotto forma di soffi ipnotici o di particelle in movimento tanto circoscritto quanto incessante.
Le dodici composizioni, contrassegnate soltanto dal numero progressivo delle tracce, trasportano inoltre le elaborazioni digitali dell’ambient music di Juhls all’esterno del contesto dello studio e della manipolazione “ingegneristica” del suono. Non si limitano, tuttavia, alla mera descrizione di un paesaggismo come velato dalle particelle di polvere e vapor acqueo sospese tra i raggi di un sole primaverile, bensì ne assorbono la dimensione, permeandovi anche gli spazi più angusti con una consistenza densa, granulosa, in costante espansione.
È questa l’impressione che promana in particolare da aperture come quelle di “III” e “V”, trasfigurazioni maestose di un’orchestra post-moderna avvolta in una nebbia narcolettica.
Nel corso del lavoro non mancano tuttavia episodi più tenebrosi, elaborati piuttosto in forma di propulsioni oscure percorse da un pulviscolo di vibrazioni, sciabordii e micro-rumori (“VI”, “XI”) che non in quella di ottundenti persistenze droniche (“II”). Anche in tali casi permane tuttavia un’articolata attitudine di stampo sostanzialmente orchestrale, che nella parte finale dell’album ulteriormente arricchito da sfumate ritmiche elettroniche (“XI”) o ridotto a elongazioni di note pianistiche filtrate (“XII”).
Da tale composita tavolozza, Juhls riesce dunque a trarre un affresco estremamente dettagliato di scenari ambientali non più solo avvinti nella contemplazione o intorpiditi dalla ripetizione, ma che riescono a cogliere le dinamiche più incorporee e infinitesimali delle atmosfere e degli spazi che li hanno suscitati.