LAWRENCE ENGLISH – Wilderness Of Mirrors
(Room40, 2014)
Non sembri strano che un drone-artist navigato quale Lawrence English individui apertamente in band quali Swans e My Bloody Valentine le matrici di ispirazione del suo ultimo lavoro, primo album organico dopo tre anni trascorsi dedicandosi a progetti e formati diversi, nonché a collaborazioni tra le quali merita la citazione quella con Liz Harris in Slow Walkers.
Tale premessa aiuta a comprenderne la manifestazione nelle otto tracce di “Wilderness Of Mirrors”, forse il disco più maestoso realizzato dall’artista australiano, quanto meno sotto il profilo della densità del suono e dell’impatto disadorno, a tratti persino ruvido, delle sue modulazioni elettroniche di frequenze chitarristiche distorte. È proprio nella consistenza “fisica” dei drone che si traducono le suggestioni preliminari al lavoro, figlie di un approccio tutto fuorché rassicurante alla composizione ambientale di English, impegnato a costruire cattedrali di suono attraverso una miscela di tensione evanescente e granulosi muri di rumore.
Ne risulta un album di paesaggi oscuri e mutevoli, nei quali è ancora dato scorgere rarefazioni tuttavia angosciose (nei due interludi “Guillotines And Kingmakers” e “Wrapped In Skin”), ma che si manifestano nelle imponenti risonanze distorte che nella prima parte del lavoro scorrono come magma sotterraneo, per poi elevarsi in superficie nella seconda, nella quale culminano nel crescendo deflagrante di “Forgiving Noir” e nelle urticanti volute di rumore bianco della conclusiva “Hapless Gatherer”.
Anche senza giungere a tali pur brevi estremi, il granitico impianto complessivo di “Wilderness Of Mirrors” trova anzi sintesi ancor più coesa e solenne laddove dà luogo a costruzioni di natura più strettamente ambientale, nell’affine accezione sviluppata da Tim Hecker e Christian Fennesz eppure innervate da un’infinita sequenza di particelle distorte, modulate in un lento, incessante movimento, da cogliere al meglio attraverso un attento ascolto in cuffia e a volume sostenuto.
Si tratta quanto meno di un significativo punto di svolta per English e forse in generale per una certa estetica dronica, che, palesando connessioni comunque già ravvisabili sotto traccia, dischiude nuovi orizzonti di osmosi tra ambient e noise.