L’evoluzione della specie
Islandese, classe 1986, Ólafur Arnalds ha da poco pubblicato il proprio quinto album “Some Kind Of Peace“, ulteriore tappa di un ampio percorso creativo che abbraccia classicità e sperimentazione, in una chiave accessibile, che non ha mai deviato da contenuti emozionali, (non) sorprendentemente “pop”.
La lunga scia tracciata dal successo planetario dei Sigur Rós ha richiamato, fin dai primi anni Duemila, una crescente attenzione sulla scena artistica islandese, tra le più “densamente popolate” del pianeta, avendo riguardo al sorprendente rapporto tra l’esigua popolazione dell’isola situata nell’Atlantico settentrionale e il consistente numero di proposte musicali costantemente originate nel suo ribollente underground. Quella scia ha intercettato il nascente percorso creativo di uno dei tanti giovani islandesi spontaneamente avvicinatisi alla pratica musicale, in origine come batterista di band hardcore/metal, quando nel 2008 la band lo scelse come supporto di un tour (quello dell’album “Með Suð Í Eyrum Við Spilum Endalaust“) che l’avrebbe portata ad esibirsi su palcoscenici tra i più importanti e con grandi cornici di pubblico.
Quel giovane si chiamava Ólafur Arnalds e, all’epoca, aveva da poco compiuto ventun anni e pubblicato, sul finire dell’anno precedente, il proprio debutto “Eulogy For Evolution“, primo frutto di un percorso che dalle esperienze adolescenziali lo aveva portato alla “scoperta” del pianoforte, in una formula compositiva nella quale ancora convivevano la grazia armonica emanata dalla sua tastiera con il vigore delle chitarre e dell’elettronica, secondo schemi assai diffusi nel post-rock più “emotivo” di quegli anni.
A quel punto, Ólafur era già un artista capace di camminare con le proprie gambe, che lo avrebbero condotto sui sentieri di una sperimentazione comunque nell’alveo di una base classica e minimale, sempre attenta agli aspetti comunicativi più immediati del suono prodotto. Ben presto espunti dal proprio paradigma espressivo i giovanili impeti elettrici e le ormai prevedibili esplosioni di rumore che in alcuni brani dell’esordio squarciavano delicati ricami pianistici, l’attenzione del musicista islandese si concentra tutta sul più classico degli strumenti, del quale si orienta a esaltare le timbriche più coinvolgenti, lavorando in particolare sulle cornici sonore e sulla natura istintiva delle proprie composizioni.
Mentre infatti nel suo secondo album vero e proprio, “…And They Have Escaped The Weight Of Darkness” (2010), l’elettronica continua a giocare un ruolo di pur marginale ma esplicita enfatizzazione emotiva, Arnalds comincia a cimentarsi con spazi fisici e modalità realizzative non canoniche. L’album è infatti preceduto e seguito da due raccolte di “canzoni” (“Found Songs“, 2009, e “Living Room Songs“, 2011) composte secondo processi tanto rapidi da permettergli di pubblicarne su apposite piattaforme online una al giorno per periodi di una settimana.
In questa fase, giunge a definizione un registro espressivo estremamente diretto nella sua semplicità, ridotto com’è quasi soltanto a armonie pianistiche sparse e cadenzate, appena disturbate da minuti detriti atmosferici ed elettronici. La notevole linearità e immediatezza delle composizioni di Arnalds presenta contenuti descrittivi naturalmente adatti all’associazione con le arti visuali, che dopo le prime esperienze con la danza (“Dyad 1909“, 2009) lo introdurranno con una certa continuità nel mondo delle colonne sonore per cinema e televisione (tra le altre, “Another Happy Day“, 2012, “Broadchurch”, 2015).
Al contempo, l’artista islandese avverte la necessità di confrontare il proprio scarno solipsismo creativo con musicisti affini e con metodi compositivi più articolati rispetto a quelli offerti dal proprio studio casalingo. Si sviluppa così un duraturo e proficuo dialogo con “Nils Frahm” e il duplice ambizioso tentativo di integrare le sue composizioni in un più ampio contesto orchestrale e di coronarle con l’elemento vocale, che trova realizzazione nell’album “For Now I Am Winter” (2013), che comprende quattro vere e proprie canzoni, scritte e interpretate con tono evocativo da Arnór Dan Arnason, e nelle rivisitazioni per quintetto d’archi, piano e synth del “The Chopin Project” (2015).
Ormai riconosciuto il suo profilo di compositore contemporaneo, anche attraverso la firma di contratti discografici con etichette di prim’ordine, Arnalds rimane tuttavia artista ben poco accademico, anzi la sostanziale assenza nella sua scrittura di elementi di vera e propria complessità lo avvicina a una dimensione “pop”.
Se dunque a un certo punto la sua proposta artistica da semplice stava diventando piuttosto scontata e scolastica, la risposta del musicista islandese è stata la ricerca non soltanto di più articolati contesti esecutivi, ma anche di diverse soluzioni di creazione del suono. A seguito di due anni di sviluppo insieme ad Halldór Eldjárn, l’album “Re:member” (2018) vede infatti l’introduzione del sistema di pianoforti denominato Stratus, che segue una modalità semi-generativa, in forza della quale mentre Arnalds suona una nota, il sistema ne genera altre due diverse, arricchendo di sequenze mutevoli texture armoniche ormai a forte rischio di ripetizione.
Nel contempo, sul grado zero del minimalismo pianistico, troppo spesso replicato nella fase centrale della sua già copiosa attività, tornano a innestarsi parti vocali e contributi elettronici più marcati. Restano tuttavia aspetti distinti di una personalità artistica senz’altro interessante e a suo modo rappresentativa della innegabile spinta creativa propria della coniugazione di antico e moderno, con tutte le sue infinite possibilità ma anche debolezze.
(pubblicato su Rockerilla n. 483, novembre 2020)