Provenienti da quel Pacific North-West che tanti stimoli musicali sta offrendo negli ultimi anni, Thomas Meluch e Rafael Anton Irisarri uniscono per la prima volta le loro forze dando luogo a un progetto collaborativo denominato Orcas.
Chi conosce almeno un po’ il retroterra solista dei due saprà già che non si tratta di esponenti di quell’indie-folk che da quelle parti ha trovato inesauribile vitalità, bensì di due musicisti che per vie diverse stanno conducendo esplorazioni incentrate sull’utilizzo dell’elettronica, accostata a melodie strumentali.
Meluch, col suo alter-ego Benoît Pioulard, ha elaborato un’obliqua formula di cantautorato folktronico, incentrato su manipolazioni casalinghe e sul suo timbro stralunato, mentre Irisarri si è diviso tra le texture neoclassiche dei lavori a suo nome e le evanescenze increspate da pulsazioni minimal-techno di quelli sotto l’alias The Sight Below.
Il loro incontro assume dunque quasi i contorni dell’inevitabilità, che i quaranta minuti di “Orcas” secondo una formula non circoscritta all’addizione tra gli elementi propri dei due artisti coinvolti, ma capace di trascolorare iterazioni ipnotiche e tremule screziature sonore nel substrato ideale di texture ambient-pop rilucenti e impalpabili.
Certo, l’impronta di Meluch è riconoscibile nelle sue timbriche invariabili, così come nei profili più prettamente elettroacustici, mentre quella di Irisarri affiora in vaporose correnti ambientali e nei fragili impeti aurorali che avviluppano gran parte dei brani, fino a sfociare nelle dense saturazioni del conclusivo strumentale “High Fences”.
Benché a tratti non poi così concettualmente distante dall’esperimento di cantautorato ambientale di Eluvium in “Similes”, l’album diluisce una malinconia soffusa di fondo in contemplazioni fluidi e serene, che proprio nel cantato e nelle narcolettiche linee melodiche di Meluch trova un completamento significativo ancorché non necessario. Gran parte delle composizioni si reggerebbero infatti tranquillamente in assenza dell’elemento vocale, che pure non disturba né appare una mera giustapposizione. Lo dimostrano in particolare canzoni scheletriche come “Arrow Drawn” e armoniosamente sognanti come “I Saw My Echo”, oltre alla splendida cover di “Behind Us” dei Braodcast, che trae le mosse da una delicata melodia pianistica, gradualmente sovrastata da una distorsione in lento crescendo.
Più che i singoli elementi, è proprio il complesso di “Orcas” a meritare di essere salutato in maniera favorevole, poiché dal suo contenuto è evidente come l’incontro tra i due artisti americani abbia prodotto un ibrido difficilmente inquadrabile e affascinante nella sua resa sonora. Collaborazioni come questa e come quella da poco realizzata da Liz Harris e Jesy Fortino in Mirrorring testimoniano come anche nell’attuale panorama mondo musicale parcellizzato l’unione di sensibilità possa produrre risultati in grado di travalicare la semplice sommatoria di quanto ogni artista è in grado di offrire.
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